di Bruno Ciccaglione

Presentato alla settantottesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Ariaferma, il film di Leonardo Di Costanzo con Toni Servillo e Silvio Orlando che uscirà nei cinema il 14 ottobre, avrebbe meritato di essere ammesso al concorso. Oltre alla eccezionalità del vedere per la prima volta assieme due dei migliori attori italiani, il che ha garantito una buona attenzione dei media a Venezia e forse ne faciliterà un certo successo di pubblico, il film colpisce per la delicatezza con cui affronta un tema complesso come quello della relazione tra detenuti e guardie carcerarie e inevitabilmente ci impone una riflessione sul nostro modo di relazionarci all’universo di chi ”sta in galera”.

La vita in una istituzione totalizzante come il carcere è basata sulla scansione regolare di momenti su cui detenuti e agenti di sorveglianza costruiscono la propria quotidianità e i propri ritmi di vita. Per questo ogni volta che qualcosa della routine abituale viene a mancare, tutti percepiscono un senso di incertezza e di tensione. È il meccanismo su cui si basa il film, sia nella sua forma complessiva – il regime carcerario ordinario è interrotto a tempo indeterminato – sia nella successione dei vari snodi della vicenda, ogni qualvolta i personaggi devono confrontarsi con una situazione nuova.

Nella eccezionalità della situazione raccontata – un carcere che deve chiudere e che per motivi burocratici resta aperto, ma con pochissimi detenuti e pochissimi agenti di custodia, senza visite dei familiari, con le cucine chiuse, tenendo insieme detenuti che di solito sono tenuti separati per motivi di sicurezza – paradossalmente diviene più evidente come la vita nel carcere sia null’altro che una sospensione della vita, come chiaramente indica il titolo Ariaferma. Anche se il film dunque non vuole essere un film sulla condizione delle carceri italiane, esso è forse, come ha detto il regista, un film sull’assurdità del carcere come tale.
Di Costanzo non ha bisogno di mostrare quanto le vicende avvenute a Santa Maria Capua Vetere hanno rivelato alle anime belle, ignare su che cosa avvenga nelle carceri. Basta guardare le scene girate nei reparti chiusi del carcere in cui è stato girato il film – la scorciatoia che i personaggi percorrono varie volte con diversi stati d’animo – per domandarsi se tutti gli anni trascorsi lì dentro da tanta umanità possano essere considerati vita a pieno titolo.

E dunque il film riesce ad essere efficace non tanto e non solo per la tensione continua che mai esplode (la rivolta carceraria temuta non si realizza, lo scontro latente tra agenti e detenuti non esplode, le tendenze autolesioniste del detenuto ritenuto più fragile vengono riassorbite), quanto perché all’interno di questo universo chiuso si insinua, nonostante tutto, l’umanità.
Nello spazio circolare su cui affacciano le celle dei pochi detenuti rimasti, una sorta di piccola arena, o di teatro, ma anche di spazio comune con le sue strane regole (le celle sono aperte e ci si può muovere per gran parte del tempo, ma è vietato entrare nella cella di un altro detenuto), si svolge un racconto basato sul confronto tra i due personaggi centrali della storia, l’agente di custodia più anziano che deve gestire questa situazione di emergenza ed il detenuto più carismatico (probabilmente un boss di criminalità organizzata).

L’intuizione di Di Costanzo è stata quella di assegnare i due ruoli a Servillo e Orlando nel modo più “scomodo”, come ha dichiarato Silvio Orlando: sarebbe stato logico infatti, pensare a Orlando nel ruolo della guardia carceraria e a Servillo in quello del criminale e invece la scelta meno ovvia si è rivelata la più giusta. D’altra parte la figura del criminale intelligente, che sa come funziona il carcere e che utilizza con sapienza la propria autorevolezza tra i detenuti, risulta molto più credibile proprio perché la recitazione di Orlando è contenuta, pungente, non ostentata.

“È tosta sta’ in galera, eh?” dice il detenuto alla guardia carceraria per stemperare un momento di tensione. La sfida che il criminale Lagioia (Nomen omen?) interpretato da Silvio Orlando lancia all’agente di custodia Gargiulo/Servillo è limpida ma insidiosa: rapportarsi come esseri umani. Che sia il criminale ad aprire questa possibilità di una relazione – anche questa imprevista e dunque in questo contesto gravida di incertezze – è un altro degli elementi che Di Costanzo ha scelto per sfuggire a ogni tentazione manichea. Ma questo è anche il paradosso del carcere che il film mette in evidenza: tra i detenuti e gli agenti, i più liberi sembrano i primi, i secondi essendo sempre costretti dalle regole della istituzione a comportamenti non sempre i più ragionevoli. In questo senso la sfida che Lagioia/Orlando lancia è anche all’atteggiamento di superiorità che gli agenti ostentano (gli lasceranno usare il loro stesso bagno quando ne ha bisogno?).
D’altra parte il personaggio di Servillo/Gargiulo ha la intelligenza e la esperienza per valutare rischi e benefici, ma anche una umanità che dopo le prime diffidenze gli consentirà di accettare un modo diverso di relazionarsi con i detenuti. Inoltre il personaggio coglie un altro aspetto, che riguarda in un certo senso la metafora più politica che troviamo nel film: i rappresentanti delle istituzioni e le autorità li hanno mollati, lasciano a loro la gestione di una situazione complicata e piena di rischi. Il carcere, che la nostra società sembra far di tutto per tenere come uno spazio separato e distante da sé, diventa invece forse il luogo per eccellenza dove si manifesta il rapporto fra le istituzioni e i cittadini (e questo rapporto è un rapporto alla Ponzio Pilato).

Servillo e Orlando, entrambi uomini di teatro, hanno dato molto a questo film, anche grazie a un lavoro preparatorio fatto con la lettura a tavolino del copione, proprio come si fa per uno spettacolo teatrale e hanno anche scherzato su una possibile riduzione in teatro della storia, magari alternandosi sera dopo sera nei due ruoli principali (evocando quanto facevano Gassman e Randone con Otello e Jago). Ironicamente, questa capacità di mettersi nei panni dell’altro, è anche uno degli elementi caratteristici dei due personaggi Lagioia e Gargiulo, che hanno avuto sorti diverse, pur se partendo dallo stesso quartiere e da condizioni ambientali e culturali analoghe.
Bravissimi anche tutti gli altri attori, a cominciare da Fabrizio Ferracane (un agente molto riluttante a stabilire una relazione coi detenuti che matura forse nel finale una sensibilità più forte) e Salvatore Striano. Straordinaria la colonna sonora di Pasquale Scialò, che ha ricercato delle soluzioni timbriche che evocassero il mondo del carcere, anche registrando alcuni elementi ritmici e sonori in alcuni istituti penitenziari.

Che una possibilità di relazione tra detenuti e agenti si realizzi innanzitutto a partire dal cucinare, e che poi il mangiare insieme sia ciò che rende reale e concreto un piccolo momento di umanità è forse uno degli elementi più tipicamente italiani del film. Se detenuti e agenti possono mangiare insieme, perfino le dure regole del carcere possono per un momento essere messe da parte (gli agenti chiuderanno un occhio sulla bottiglia di vino non autorizzata, i detenuti accetteranno di mangiare nello stesso spazio con il detenuto accusato di pedofilia, che altrimenti rischierebbe gravi conseguenze).
I ruoli non sono cancellati, non c’è da farsi illusioni: non è stata una scelta politica o una riforma a rendere possibile quanto nella galera risultava impensabile, ma proprio il fatto che un po’ miracolosamente, quella situazione di emergenza è stata meno galera del solito.