di Laura Pozzi

Suscita sempre particolare entusiasmo ascoltare e interagire con Jonas Carpignano. Sarà per quella parlantina tricolore squisitamente a stelle e strisce, per il fare privo di pose o sovrastrutture, per quel look svagato e famigliare, di certo il ragazzo coinvolge e appassiona. Lo avevamo “intercettato” la prima volta nell’estate del 2017 quando Mediterranea, suo film d’esordio veniva proclamato miglior “bimbo bello” nel festival ideato e condotto da Nanni Moretti, volto a valorizzare i giovani esordienti del cinema italiano. Un po’ a sorpresa la giuria popolare decise di premiarlo come miglior film, evidenziando una clamorosa lacuna distributiva: il lungometraggio girato a Gioia Tauro nel 2015 era stato selezionato nei principali festival di tutto il mondo, ma senza trovare distribuzione (a differenza di altri paesi quali Francia e Germania) in Italia. Il nome di questo vivace e spigliato regista italoamericano, nato a New York nel 1984 da padre italiano (nipote di Luciano Emmer) e madre statunitense originaria delle Barbados, giunto nella Piana per conoscere e documentarsi sui fatti di Rosarno del 2010, era fino a quel momento pressoché sconosciuto, ma quella proiezione e quel premio furono se non un punto di svolta per la sua carriera sicuramente di buon auspicio. Qualche mese più tardi, infatti il suo secondo lungometraggio A Ciambra, prodotto da Martin Scorsese vincerà il premio Cinema Europa Label al festival di Cannes e verrà proposto per l’Oscar nella categoria miglior film straniero. Con A Chiara, il promettente Jonas, torna nuovamente sulla Croisette, bissa il traguardo di quattro anni prima e dimostra ancora una volta come il suo cinema “partecipato” rappresenti molto più che una semplice alternativa all’omologazione dilagante che affligge da anni la nostra cinematografia.

A Chiara contiene fin dal titolo una spiccata e inedita vocazione poetica. Nel presentarci questa quindicenne dai capelli corvini e dallo sguardo tagliente, il regista compone in suo onore un’ode tragica, dolorosa, pervasa da un bagliore quasi sacrale. Chiara Guerrasio (l’intensa e sorprendente Swamy Rotolo) vive a Gioia Tauro insieme alla famiglia, alla quale è profondamente legata. Nonostante gli scontri più o meno marcati da una sana rivalità con la sorella maggiore Giulia (Grecia Rotolo), la sua vita apparentemente priva di ombre trascorre tra scuola, palestra e lunghe passeggiate sul lungomare in compagnia delle amiche. Il suo incanto adolescenziale viene in parte adombrato dalla presenza di una rom che si aggira spavalda e indisturbata nel suo territorio. Dopo una lunga e folcloristica festa di compleanno per i diciotto anni di Giulia, la quotidianità di Chiara viene letteralmente fatta saltare in aria da un’esplosione che preannuncia l’improvvisa e inspiegabile fuga dell’amato padre. Il suo spirito ardente, combattivo e poco incline ai compromessi la porta a navigare tra le acque melmose di un mondo nascosto e sotterraneo, catapultandola nella vita segreta di un genitore “sconosciuto” creduto fino a quel momento irreprensibile. Venuta a conoscenza della verità, spetterà a lei attraverso la sua bussola interiore prendere in mano la sua vita e orientarla verso un futuro dai contorni incerti, ma saldamente ancorato alla piena consapevolezza di se.

Il film, già sceneggiato nel 2015 viene idealmente e forse precocemente considerato il capitolo conclusivo della trilogia di Gioia Tauro, comune dove vive tutt’ora Jonas e dove da più di dieci anni ha ideato, elaborato e realizzato la sua poetica cinematografica. Dopo aver esplorato con Mediterranea la comunità africana, e con A Ciambra la comunità rom, con A Chiara ha deciso di inoltrarsi nel sottobosco dell’ndrangheta affidandosi allo sguardo di un’adolescente costretta a crescere troppo in fretta. Riprese claustrofobiche, semisoggettive, piani sequenza spregiudicati e rivelatori, Carpignano rompe qualsiasi convenzione formale, strizza con parsimonia l’occhio al documentario, sollecitando lo spettatore a “partecipare”, a seguire e se necessario inseguire Chiara nella sua personalissima via crucis famigliare. Una visione non sempre facile, talvolta opprimente, ma sempre lucida e rispettosa del ruolo attivo di chi sta guardando. Il risultato è la scoperta di un cinema puro, catartico, interessato ai soggetti e non agli oggetti, immune a qualsiasi forma di spettacolarizzazione, focalizzato sulle persone, sui loro punti di vista, sulle loro ragioni. Perché condivisibili o meno tutti ne abbiamo. Anche quel padre discutibile che con estrema naturalezza tenta di giustificarsi confessando alla figlia in uno dei momenti più vibranti del film “la chiamano mafia, ma per noi è sopravvivenza”, merita ascolto, perché le persone spesso sono capaci di andare oltre. E in questo caso Claudio oltre ad essere mafioso è indiscutibilmente un ottimo padre. Una visione coraggiosamente rivoluzionaria, controcorrente, desiderosa di concedere spazio all’altro lato, quello che superficialmente resta fuori campo e probabilmente ci somiglia molto più di quanto pensiamo.

Tuttavia al centro del racconto troviamo sempre lei, Chiara, la sua ostinazione, le sue fughe, i suoi turbamenti, le mille domande andate a vuoto a cui non trova risposta. La macchina da presa non la molla un attimo, respira la sua irrequietezza, sostiene il suo coraggio e non indietreggia di fronte alla profonda malinconia dei suoi occhi prigionieri. Prigionieri di un mondo che non riconosce e di una legge di Stato emotivamente devastante, che strappa i minori alle famiglie mafiose per concedere una chance di futuro, altrimenti negata. Ma Chiara non ha nessuna intenzione di rispettare le leggi, di soddisfare i buoni propositi degli assistenti sociali, di recidere il legame con la sua terra perchè lei è già a casa. Per questo non sorprende la scelta (già collaudata in A Ciambra) di impiegare nel film la sua vera famiglia, conosciuta anni prima e divenuta nel tempo fonte d’ispirazione. Lo dimostra la lunghissima e interminabile sequenza del compleanno di Giulia: venti minuti di festeggiamenti, simili a mille altri, in cui apparentemente non succede nulla di memorabile, se non l’inspiegabile e avvolgente sensazione di trovarci improvvisamente in compagnia di amici forse dimenticati e di colpo miracolosamente riapparsi.
