di Marco Grosso –
Il rapporto tra cinematografia e fantasmagoria, tra cinema e fantasmi, è talmente antico e intimo da poter essere definito primigenio e strutturale. La stessa parola composta “fantasmagoria”, se etimologicamente rinvia al significato allegorico dei fantasmi, nel suo uso più proprio e più tecnico designa proprio una “successione di illusioni ottiche prodotte specialmente dalla lanterna magica” (cit. dal Dizionario Treccani), ovvero rimanda all’antenata della cinepresa.
A nostro avviso è possibile indagare questo legame almeno su due piani: un primo e più immediato, tematico e contenutistico, tratta il fantasma come soggetto cinematografico (in chiave sia letterale che metaforica), o come protagonista di un filone e sotto-genere (i ghost movies) riconducibile, a seconda dei casi, al genere fantastico, mystery od horror; a un secondo livello, diciamo più estetico-formale o proto-cinematografico e meta-cinematografico, il fantasmatico starebbe all’origine stessa dell’invenzione del cinema improntandone profondamente il linguaggio, al punto da poter essere adoperato come una delle chiavi d’oro per accedere alla comprensione dello “specifico filmico”.
Il nostro tentativo non è stato dunque solo quello di ricostruire sommariamente lo sviluppo di un genere e neppure di esaminare un soggetto ricorrente nella storia del cinema, ma ci siamo spinti a rileggere attraverso la lente del fantasma e del fantasmatico la natura stessa del linguaggio cinematografico e, a grandi linee, del suo viaggio nel tempo.
Il cinema come arte fantasma
Partirei da qualche considerazione in ordine sparso proprio riguardo a questo secondo livello e comincerei con un lungo salto all’indietro, alla genesi stessa del cinema.
Fin dalla prima proiezione del celebre L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat avvenuta nel giorno dell’Epifania del 1896 a Parigi, gli spettatori in sala si sentirono letteralmente “investiti” da questo linguaggio dirompente e rivoluzionario capace di “estrarre” la realtà (o meglio il suo fantasma) dal telo della rappresentazione e di scaraventarla addosso al pubblico. L’impressione – di stupore e spavento – fu probabilmente quella di un treno fantasma in grado di varcare la soglia/schermo e di trasformare la stessa sala del cinematografo nella vera stazione di arrivo di quel treno.
Spettrali dovevano apparire, agli occhi degli spettatori dei primi cinematografi, anche i fasci luminosi che trafiggevano il fitto buio della sala e dentro cui viaggiavano immagini e figure, spettrale anche il grande telo-lenzuolo bianco del cinematografo dove quei fantasmi prendevano “corpo” e le ombre degli spettatori talvolta si sovrapponevano ad essi.

Con l’invenzione del cinematografo quei fantasmi della luce, un tempo affiorati sulle lastre fotosensibili dei primi dispositivi fotografici, poi impressi in trasparenza e in “negativo” sulle pellicole come spettri lattiginosi, si trasferivano ora sui rotoli dei nastri in celluloide scorrendo in sequenza alla velocità di 24 fotogrammi al secondo e perfezionando l’illusione fantomatica di un movimento più fluido e realistico.
Ben presto, almeno dai cortometraggi di Georges Méliès in poi, e in particolare dai suoi viaggi onirici (come Le voyage dans la lune del 1902 e Le voyage à travers l’impossible del 1904), l’invenzione del cinema si affrancherà dalla sua mera funzione di ausilio tecnico-scientifico o di supporto ad altre arti e imboccherà la via della finzione (fiction) narrativa per immagini-movimento, accentuando proprio la natura visionaria e fantastico-fantasmatica del suo nuovo linguaggio, e inaugurando la storia della sua trasformazione in una forma artistica a sé stante, ribattezzata “Settima Arte” secondo la celebre definizione data dal critico Canudo nel suo manifesto del 1921 intitolato La nascita della Settima Arte. Méliès trasformò di fatto la cinepresa in una macchina narrante e sognante, in un laboratorio magico-illusionistico che cambierà per sempre l’immaginario collettivo, riprendendo lo spirito e liberando gli spiriti di tutti quei macchinari “mirabili” del pre-cinema ottocentesco, giocando con ogni sorta di trucco ottico e di prestigiazione visiva.

A tal fine fondamentali e fondanti saranno i primi lungometraggi monumentali di D. Griffith (Nascita di una nazione) e di A. Gance (Napoleone), o la serie di 5 mediometraggi del 1913-14 realizzata da L. Feuillade (intitolata proprio Fantomas, dal nome del protagonista, inafferrabile genio del crimine esperto in travestimenti e sparizioni), ritenuta dalla critica cinematografica pregevole espressione di un “realismo fantastico”.
Da quel momento il cinema tenderà a perfezionare sul piano tecnico la verosimiglianza della sua rappresentazione e a produrre un “effetto di realtà” sempre più credibile, sforzandosi di dissimulare sempre meglio i propri inganni, acquistando via via una capacità narrativa e visionaria sempre più propria e seduttiva, non ostacolata – anzi, per certi versi amplificata – dalla iniziale “limitazione” del muto.
Grazie ad una serie di invenzioni ottiche e di innovazioni tecniche negli ambiti della fotografia, della ripresa, del montaggio e della proiezione, grazie ad “effetti speciali” – che allora apparivano stupefacenti – di sovraimpressione in trasparenza dei piani e delle figure, di ritaglio e ricomposizione dei frames e delle sequenze filmiche, di dissolvenza, di accelerazione e ralenti, di distorsioni prospettiche etc., la figura archetipica del fantasma nelle sue diverse declinazioni (ombra–demone–spirito–anima del defunto–travestimento–allucinazione–miraggio) attraversa da protagonista, e con una veste sempre più verosimile e quindi sempre più inquietante, tutta la gloriosa stagione del cinema muto.
Fantasmi indimenticabili vedranno la luce già dai primi anni ‘10, per tutti gli anni Venti e fino agli inizi degli anni ‘30. Li vediamo aggirarsi tra diversi capolavori dell’espressionismo tedesco (da Il gabinetto del dottor Caligari del 1921 al Phantom di Murnau), in La caduta della casa Usher di J. Epstein (che nel ‘25 traspone e unifica due racconti di Poe: Il ritratto ovale e il racconto che dà il titolo al film), in alcuni capolavori del regista svedese V. Sjöström (come The Phantom Carriage – Il carretto fantasma del ‘22 e The Wind del ‘28), nei cortometraggi geniali e surrealisti della cineasta francese Germaine Dulac, nella prima trasposizione cinematografica americana (1925) del celebre romanzo Il fantasma dell’Opera (in cui la figura romantica del fantasma intrecciava aspetti di malvagità quasi demoniaca con quelli di una commovente e tragica umanità).
Celebri figure spettrali riappaiono nei primi anni ‘30, agli esordi del sonoro, nel rivoluzionario Vampyr di Dreyer (1931) e in The Invisible Man (1933) di J. Whale: storia di un chimico che, dopo aver scoperto il siero dell’invisibilità durante un esperimento, è colto da mania di onnipotenza e commette ogni sorta di nefandezza fino ad essere braccato e ucciso dalla polizia, e torna visibile solo da morto (in un’interessante inversione del rapporto fantomatico tra visibile e invisibile).
Questa radice spettrale del cinema, questa sua vocazione a sondare l’invisibile e l’arcano (in senso metafisico-misterico o semplicemente psicanalitico), questa sua capacità quasi medianica di evocare e risvegliare i fantasmi di dentro o di evocare il fantasma stesso della cosiddetta realtà tramite il suo medium sembrano dunque tratti caratterizzanti e costitutivi di questa nuova e potente forma d’arte, di questo nuovo modo di mentire artisticamente.
Questo a mio avviso sarà e resterà vero sempre, non solo nel cinema più apertamente fantastico e surrealista ma anche nelle molteplici e diverse espressioni cinematografiche del realismo poetico, simbolico, magico, e perfino dove e quando il cinema si sforzerà di attenersi al principio della realtà storica e sociale per raccontarla e testimoniarla senza eluderla (come nelle grandi scuole dell’avanguardismo russo o del neorealismo italiano).
A proposito di fantasmi apparsi nel cinema storico-sociale, come non citare il caso emblematico del capolavoro di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, ritratto neorealista di un personaggio storico che viene ri-tratto via dalla scena e di fatto non si vede mai (se non all’inizio e alla fine come salma), ma che permea tutto il film con la sua fantomatica, operosa e vitale presenza-assenza? Fantasmi di questo genere sono anche personaggi di finzione, come la figura di Rebecca nel film Rebecca – la prima moglie di Hitchcock o il recente Frantz di Ozon, film i cui protagonisti non appaiono mai, ma segnano con la loro presenza assente tutta la vicenda, i luoghi in cui è ambientata, e la psicologia dei personaggi che vi ruotano attorno.

Il fantasma è costitutivo del linguaggio del cinema anche in un altro senso e da un’altra fondamentale angolazione: esso si annida infatti nelle pieghe e nelle lacune del rapporto tra il regista, l’attore-personaggio e lo spettatore: esiste infatti un filo fantomatico che lega questi tre soggetti.
Il regista è in un certo senso il primo fantasma del film, tutto quello che vediamo è infatti il suo sguardo sulla storia, i personaggi, le cose. Tutto ciò che vediamo e ascoltiamo è il risultato del suo modo di inquadrare e di girare, della storia raccontata, degli attori scelti e diretti da lui. Questo è tanto più vero quanto più un autore personalizza, coordina e raccoglie nella sua visione autoriale tutte le componenti fondamentali del suo film (dalla ripresa alla fotografia, dal montaggio alla direzione degli attori, dalla sceneggiatura alla scenografia, dai suoni alla colonna sonora).
Il regista si esprime sottraendosi, eclissandosi, lasciando il posto allo sguardo dello spettatore che in tempo reale ri-gira dentro di sé il proprio film ed è spinto a soggettivizzare quel posto “vuoto”, o a intessere un dialogo a distanza con quello sguardo, con il mondo di quell’autore. I registi migliori sono forse quelli che sanno meglio ritrarsi e tra-sparire in fantasma per stimolare questi processi di immedesimazione illusionistica dello spettatore coinvolto in uno speciale “patto narrativo” con il fantasma-autore e i fantasmi-attori.
Il legame fantasmatico tra autore/i, attori e spettatori ha pertanto sempre a che fare con questa dialettica del visibile e dell’invisibile, con questo gioco di estensioni e di sottrazioni dei soggetti che partecipano alla messa in scena del film (tra cui vanno evidentemente compresi gli spettatori). Possiamo serenamente affermare che ognuno dei tre si colloca e si muove in un interregno posto tra il pieno e il vuoto, lungo il confine tra l’incorporeo e il corporeo, perché il fantasma non è mai propriamente presente e non è mai puramente assente, resta per così dire una presenza assente o un’assenza presente, e ogni volta oscuramente pre-sentita.
Luoghi, forme ed esempi del fantasmatico nella storia del cinema
Non possiamo non parlare, anche in una ricostruzione sommaria e necessariamente molto selettiva come questa, di quel prolifico e lungo filone cinematografico, per lo più di ispirazione letteraria, di film ambientati in posti infestati dai fantasmi o semplicemente abitati dalle loro inafferrabili presenze: si tratta spesso di dimore o di loro elementi (appartamenti, ville, castelli, alberghi, specchi, muri crepati, botole, solai, sotterranei etc.), o di luoghi naturali selvaggi e sinistri (boschi, monti, deserti, voragini, grotte etc.), o ancora di intere città, di “strade perdute”, di relitti e rovine, di campi di battaglia, di cimiteri, di ex ospedali psichiatrici, di carceri e luoghi di tortura, etc.
Sono i nascondigli e i rifugi fisici e/o psichici dei fantasmi, i luoghi di fuori o di dentro a cui restano fatalmente “legati”, dentro cui si trattengono ostinatamente o da cui attendono di essere sciolti, sempre presi tra il desiderio di andarsene in pace nella dimensione cui sono destinati e quello di restare ancora accanto ai vivi avvertendone il calore e il peso.
Spesso si tratta delle anime di persone defunte in circostanze violente e tragiche, che restano intrappolate in un dato luogo per svariate ragioni: per una sorta di maledizione che prosegue sui vivi che vi soggiornano, perché “interrotte” prematuramente dalla morte prima dell’assolvimento del loro compito terreno, perché devono portare a termine un’espiazione e una riparazione, perché “legate” dalle colpe e dai lutti irrisolti dei loro cari o perché incaricate di una missione o di un messaggio/avvertimento da recapitare ai vivi.
Nella storia del cinema c’è stato però un altro senso, meno ristretto e letterale e più psicoanalitico e profondo, in cui si è trattato di fantasmi. Lo si è fatto tutte le volte che il cinema ha scavato e indagato nelle più segrete fobie, ossessioni, psicosi e traumi legati a determinati luoghi ed eventi che prendono corpo nelle loro proiezioni allucinatorie e fantasmatiche. Non dimentichiamo che “fantasma” e “fantasmatico” corrispondono anche a termini tecnici della psichiatria e della psicoanalisi e che il rapporto tra psiche, psicosi e fantasma è antico quanto l’uomo.
In tali ambiti disciplinari il fantasma allude alla sequenza immaginaria di eventi o alla percezione scenica di cose e persone in forma illusoria o allucinatoria, come manifestazione/compensazione di conflitti e di desideri inconsci che non hanno trovato sbocchi realizzativi nella vita concreta dell’individuo.
Per Klein le rappresentazioni fantasmatiche sono quelle che mascherano le pulsioni libidiche e distruttive costituendo addirittura il contenuto primario dei processi mentali inconsci; per Freud il fantasmatico non ha solo un radicamento individuale ma corrisponde a quel complesso di strutture psichiche ereditarie che si riattualizzano in ognuno di noi (le arcaiche voci degli antenati in noi); per Lacan il fantasma rappresenta la messa in scena e la finzione strutturale del soggetto rispetto alla Mancanza che lo costituisce, ma svolge anche una duplice funzione di ricomposizione psichica (tra il simbolico, l’immaginario e il reale) e di protezione dall’orrore del reale e dagli effetti delle sue scissioni. In Psycho, giusto per trovare un corrispettivo cinematografico illustre di tali processi e strutture, tutta la vicenda narrata, la struttura psicopatologica del protagonista e perfino quella della tripartizione spaziale della casa in cui Norman vive autosegregato e ormai scollegato dal principio di realtà (cantina-sotterraneo = Es; ingresso-primo piano = Io cosciente; piano superiore in cui “vivrebbe” la madre = Super-Io), si potrebbe ricostruire nella chiave psicoanalitica del “fantasmatico”. Cos’è la follia criminale di Norman se non il risultato di una progressiva e patologica identificazione-autoscissione con il fantasma della madre, plasticamente e visivamente resa nel finale dalla celebre sovrapposizione e fusione dei due piani del suo volto? Quella villa spettrale, in cui il figlio occulta il cadavere della madre dopo averla uccisa e in cui chiunque tenti di entrare e di svelare l’(auto)inganno di Norman rischia di morire per sua mano, non è infatti altro che la materializzazione strutturata di questi processi fantasmatici.

Volendo menzionare altri esempi di un’ipotetica storia del cinema centrata sulla figura allegorica del fantasma (dei suoi “luoghi” sia fisici che psichici, e dei diversi modi e tagli in cui tale figura è stata trattata), ma intendendo restare nell’ambito del cinema d’autore o del più raffinato thriller-horror psicologico (non citerò pertanto film come Ghost, Il sesto senso, Ghostbusters, Casper etc., né alcuno splatter) proporrei, oltre ai già citati La caduta della casa Usher di Epstein e Psycho di Hitchcock, una breve ma variegata e significativa raccolta di titoli.
Anzitutto, due sperimentali e avanguardistici mediometraggi del muto: uno è del giapponese Kinusaga che nel 1925 realizza Una pagina di follia, un’opera pionieristica basata su un tipo di montaggio discontinuo (teorizzato trent’anni dopo da Godard) e che racconta, senz’alcun filo logico apparente, di un uomo che si finge infermiere per poter visitare e sostenere la moglie internata che gli apparirà sempre più come fantasma tra fantasmi; l’altro è il capolavoro della surrealista Germaine Dulac, che riportando il cinema alla sua essenza di flusso ritmico-immaginifico realizza nel 1928 La Coquille et le Clergyman, rappresentazione fantasmagorica del delirio onirico in cui prendono forma i complessi, i desideri frustrati di un prete che s’infatua della moglie di un generale e si ritrova perseguitato dalle manifestazioni fantasmatiche della sua ossessione erotica. E poi:
- La memorabile “trilogia orfica” del surrealista J. Cocteau (Le sang d’un poète, 1932; Orphée, 1950; Le testament d’Orphée, 1960) che stabiliva una connessione tutta simbolista e lirico-visionaria tra il regno dei vivi e quello dei morti, tra il regno delle ombre e quello dei corpi, tra il regno dell’amore e quello della morte attraverso specchi, corridoi, porte, gallerie e varchi segreti.
- L’angelo sterminatore (1962) e Il fantasma della libertà (1974) di L. Buñuel, opere in cui la forza incantatrice e malefica del fantasma perde ogni contorno definito, ogni identità riconoscibile e concreto riferimento per farsi pura dimensione esistenziale, “spirito del tempo”, e potenza occulta dell’alienazione.
- Vertigo di Hitchcock, ovvero un vertiginoso e labirintico gioco di specchi e di fantasmi psichici che si riflettono e si ingannano l’un l’altro: è il gioco tra il protagonista Scottie/J. Stewart (l’investigatore privato che soffre di acrofobia), Madeleine (la donna che è incaricato di sorvegliare e di cui si innamora, la donna che si sente posseduta dallo spirito della nobile spagnola Carlotta Valdés e che egli vede suicidarsi gettandosi da un campanile), Judy (la donna che Scottie incontra mentre è divorato dal complesso di colpa e in piena depressione gli appare fantasmaticamente come la reincarnazione salvifica di Madeleine, la sua seconda possibilità).
- Le ombre degli avi dimenticati (1965) del regista russo Sergei Paradjanov (l’autore geniale del più noto Il colore del melograno), opera potentemente fantasmagorica (anche sul piano visivo e sperimentale) in cui il fantasma di una giovane e bellissima sposa, disgraziatamente precipitata in un dirupo, torna ad apparire e a richiamare a sé lo sposo che non l’ha mai dimenticata per condurlo tra le ombre dei suoi antenati dimenticati.
- Il più leggero e ironico Fantasmi a Roma (1961) di Antonio Pietrangeli, dove gli antenati si rifiutano di lasciare anche da morti il palazzo nobiliare trasmesso in eredità di generazione in generazione.
- Gli invasati di R. Wise (1963) con le sue inquietanti atmosfere paranormali e spiritiche.
- L’intera “trilogia dell’appartamento” di R. Polanski (Repulsion, 1965; Rosemary’s Baby, 1968; Le locataire, 1976), incentrata sugli appartamenti come labirinti e trappole spettrali della mente nei quali si smarrisce ogni possibile integrità dell’io e la soglia stessa tra reale e irreale.
- Picnic ad Hanging Rock (1975) di P. Weir, con la storia dell’inspiegata e inspiegabile sparizione di un gruppo di collegiali tra le rocce millenarie e aride di Hanging Rock, e la crescente sensazione, indotta nello spettatore, che siano state rapite dall’Anima stessa di quei luoghi.
- Shining (1980) e Eyes Wide Shut (1999) di S. Kubrick, incentrati sul tema della pazzia come esito dell’ossessione/possessione scatenata dal silenzio assordante di un luogo desolato e infestato (l’hotel di Shining) dai fantasmi del sospetto e della gelosia davanti agli “occhi aperti/chiusi” di Eyes Wide Shut.
- La doppia vita di Veronica (1991) di K. Kieslowski, in cui si narrano due esistenze parallele della stessa persona, vite e destini che “casualmente” e “fantasmaticamente” interferiscono e comunicano tra loro pur svolgendosi in due dimensioni differenti e l’una ad insaputa dell’altra (Parigi e Cracovia, Francia e Polonia, ovvero le due radici di Kieslowski).
- Gran parte della cinematografia di D. Lynch, in particolare Strade perdute (1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), dove alla fine è lo stesso principio di realtà e il criterio oggettivo di discernimento tra reale e irreale a risultare il più indecifrabile e ingannevole degli spettri.
- The Others (2001) di Amenábar, con il suggestivo ribaltamento finale tra il punto di vista dei fantasmi e quello dei vivi all’interno di una casa e dei suoi piani invertiti.
- Ferro 3 – La casa vuota (2004) del compianto Kim Ki-duk, dove i due giovani amanti (che restano muti per l’intero film) possono amarsi e ritrovarsi solo nelle case vuote degli altri, o ritagliandosi un ruolo di fantasmi nella casa e nella vita matrimoniale di lei.
- Il recente e geniale A Ghost Story di D. Lowery (2018), dove il punto di vista del protagonista fantasma – un lenzuolo errante che torna incorporeo, un puro e muto sguardo che tutti vede e da nessuno è visto – finisce per staccarsi non solo dalla linea del tempo storico e di quello narrativo, ma dal proprio stesso punto di vista provocando un riavvolgimento del film su se stesso, una sua vertiginosa “mise en abyme”, e assorbendo in questo gioco il punto di vista dello spettatore che si ritrova a sua volta “fantomizzato”.
Proseguendo sul piano delle rappresentazioni cinematografiche dei fantasmi, va detto che nella storia del cinema, con il passare degli anni e dei decenni, l’intreccio tra le due fondamentali istanze tra cui sempre si dibatte e oscilla il linguaggio cinematografico (l’istanza realistico-riproduttiva e quella fantastico-fantasmatica) si è fatto sempre più sofisticato e complesso, superando ogni rigida contrapposizione di approccio e di “genere”.
Coerentemente con questo processo si è verificata anche una trasformazione evidente nell’iconografia del fantasma, sempre più liberata dalle rappresentazioni tradizionali e stereotipate. Così le figure dei fantasmi hanno progressivamente smesso di apparire diafane o avvolte nei loro sudari, hanno perso la loro sinistra immaterialità, ossia la loro aria vistosamente e caricaturalmente soprannaturale, caricandosi di passioni umanissime e carnali, di sensualità e desideri, dunque di ancor più stranianti e perturbanti ambivalenze.
Molto significativo in tal senso il capolavoro assoluto di Mizoguchi (Ugetsu monotagari, conosciuto in Italia come I racconti della pallida luna d’agosto), che dopo la vittoria nel 1953 del Leone d’Argento a Venezia ebbe vasta e crescente risonanza in occidente: un’opera in cui i fantasmi appaiono più carnali e sensuali dei vivi, acquistando voglie perdutamente terrene e paure umanissime (un po’ come sarà molti anni dopo per i replicanti di Blade Runner), perdendo la loro tipica “aura spettrale” e l’aria esangue ed impalpabile delle ombre dell’Ade (al punto che proprio le ombre proiettate dai loro corpi sulle cose e su altri corpi ne infittiscono il mistero e l’equivoco). Nessuno spiritello fatuo appare in Mizoguchi e da quel momento in tanti altri kaidan-eiga (i film giapponesi ispirati a leggende popolari di fantasmi), nessuna ripartizione netta tra la riva dei vivi e quella dei morti; tutti i personaggi del suo film (di qua e di là della morte) sembrano muoversi e ondeggiare fra l’elemento carnale e quello spettrale, lungo un confine che sfuma come nel magistrale piano-sequenza in cui i protagonisti in fuga dai saccheggi della guerra su un’imbarcazione lungo il fiume si fanno sempre più evanescenti nella solidità della nebbia, e non capiscono se il moribondo incrociato su un’altra imbarcazione sia un fantasma o un superstite.
I fantasmi più intriganti e conturbanti della storia del cinema diventano via via quelli che ci consentono un punto di vista trans-umano e rivelativo sulla condizione dei vivi, di noi mortali. Tale punto di vista altro, ora stupefatto e privilegiato, ora malinconico e disperato, ci ricorda lo sguardo spaesato e “gettato” degli angeli di Wenders in Il cielo sopra Berlino. È in fondo anche quello uno sguardo fantomatico, che ci permette di guardare e di riguardarci come non avremmo mai potuto e saputo, come dal perfetto altrove della morte e dell’invisibile, come da fuori e da sopra il circo febbrile degli uomini e il teatro delle loro commedie e dei loro drammi, come se ci ritrovassimo anche noi spiriti librati sul mondo e su noi stessi, almeno per qualche istante.
I fantasmi contemporanei, quelli del ‘900 e in parte quelli di oggi, appartengono per lo più a questa tipologia. Somigliano ai fantasmi che siamo e che diventiamo ogni volta che ci sentiamo prigionieri dell’invisibile, ogni volta che fissandoci allo specchio ci vediamo mentre ci vediamo, ogni volta che sforzandoci di afferrare l’immagine ultima e più chiara di noi stessi finiamo con l’imbatterci in un nuovo sfuggente fantasma, ogni volta che riuscendo a coincidere con l’enigma che siamo ci ritroviamo nella città fantasma della nostra indecifrabile singolarità e della nostra incomunicabile solitudine.
Conclusioni: di cosa ci parla il cinema dei fantasmi e il fantasma del cinema?
Di cosa parliamo quando parliamo del legame tra cinema e fantasmi? Di cosa ci parlano, in sostanza, i fantasmi del cinema di fantasmi?
Senza dubbio dei nostri fantasmi, quindi dei nostri sogni e bisogni che si travestono e vagano dentro e lontano da noi in cerca di compensazioni e riscatti, di sublimazioni e temerari sconfinamenti dal ristretto perimetro di ciò che sperimentiamo (mi sovvengono i fantasmi delle leggende popolari giapponesi – i “Kaidan”– ripresi da Mizoguchi ma ancor più fedelmente da Kobayashi nel suo sontuoso film ad episodi Kwaidan, che merita una recensione dedicata e analitica nelle future tappe di questo percorso tematico).
Ci parla delle nostre paure inconfessate e indicibili, di tutto ciò che non sappiamo e non vogliamo vedere dentro e fuori di noi, e che ci “incanta” nel senso di intrappolarci e paralizzarci (ripenso alle forze senza nome e senza volto del già citato L’angelo sterminatore di Buñuel, che impediscono inspiegabilmente e per lungo tempo ad un gruppo di invitati a cena di varcare la soglia d’uscita della villa e di tornare alle proprie case).
Ci parla di quel groviglio di presenze assenti e di assenze a loro modo presenti di cui è intessuta la nostra esistenza, delle ombre di chi non c’è più, dei fantasmi di tutte le vite e le vie cui abbiamo rinunciato e che non abbiamo scelto di percorrere e perciò tornano a tormentarci e a interrogarci (penso a diversi capolavori di Fellini e a 8½ su tutti), e sempre ci parla del fantasma della Morte che gioca a scacchi con ognuno di noi e proietta la sua ombra cupa su ogni nostro istante di vita (penso ovviamente alla serie di apparizioni pallide e spettrali della Morte ne Il settimo sigillo di Bergman, fino alla danza finale delle ombre dei cavalieri e di tutti i personaggi del film guidata dalla Morte, così simile nel suo spirito alla coreografia finale di 8 e mezzo in cui Guido/Mastroianni/Fellini balla in cerchio con tutte le persone che hanno segnato e lasciato la sua vita e con tutti i personaggi del film che non ha girato. Ci parla di tutto ciò che non riusciamo a ricordare né a dimenticare (penso ad Hiroshima, mon amour di Resnais, ai fantasmi della memoria individuale più segreta e incomunicabile che s’intrecciano ai fantasmi della memoria storico-collettiva di una nazione ferita dalla bomba atomica), o dei fantasmi fabbricati e modellati dal rimpianto e dalla nostalgia, dal rimorso e dal rimosso (mi sovvengono gli spettri materializzati e le materializzazioni spettrali sul pianeta Solaris nel capolavoro omonimo di A. Tarkovskij).
Ci parla di fantasmi demoniaci e mostruosi costruiti dall’ambizione frustrata che si annida nell’inconscio (mi tornano in mente film tra loro molto distanti come Moby Dick di J. Huston o Mulholland Drive di D. Lynch).
Ci parla del paradosso indeterministico di ogni processo umano di conoscenza investigativa e visiva che più fissa e dilata l’immagine del suo oggetto, più si sforza di riprodurlo e di possederlo nella sua oggettività con le strumentazioni di cui dispone, e più lo altera, e lo rende via via più indecifrabile fino a farne per l’appunto un fantasma. Su questo tema di fondo verte lo straordinario noir psicologico e metafisico dei fratelli Cohen L’uomo che non c’era (2001), ma l’opera che per prima e più radicalmente lo ha affrontato rimane Blow-up, il capolavoro meta-cinematografico girato da Michelangelo Antonioni nel 1966.
In Blow-up Antonioni ci parla del fantasma della rappresentazione piuttosto che della rappresentazione del fantasma. Il rimando incessante e sempre più indecifrabile tra le visioni fotografiche che il fotografo protagonista Thomas ingrandisce progressivamente nel suo studio fotografico (con la tecnica del blow-up) e la misteriosa e mutevole realtà testimoniata dalle sue fotografie si risolve in uno scacco totale di ogni ricerca conoscitiva oggettivante. Tale aporia si illumina solo, senza tuttavia sciogliersi, nella magnifica sequenza finale del film in cui Thomas si avvicina ad un campo da tennis, e scopre che a giocare anzi a fingere la partita sono due mimi, senza racchette e senza pallina, seguiti da un gruppo di spettatori che a loro volta mimano il ruolo di spettatori. Quando la pallina invisibile rotola ai suoi piedi, Thomas decide di raccoglierla e la rilancia in campo. Da quel momento riesce a sentire il suono della pallina che rimbalza da una parte l’altra del campo, riesce a “vedere” quella partita “fantomatica”.
La tesi finale di Blow-up è che l’aporia della visione, ovvero il conflitto insuperabile tra la realtà-evento e ogni nostro tentativo di afferrarla nell’immagine della percezione o del concetto, è in definitiva un gioco spettrale, è una verace illusione a cui credere, è un ironico e consapevole stare nel gioco e al gioco (secondo l’etimologia di in-ludo) di ciò che ci sfugge e si prende gioco di noi.

In ultima istanza, i fantasmi del cinema (visibili o invisibili, letterali o metaforici, psichici o soprannaturali) ci parlano di quel seducente fantasma che è il cinema stesso, del suo velo rivelatore impossibile da s-velare fino in fondo (“Cosa è il cinema? Il cinema è un mistero” diceva Tarkovskij), di una Musa fascinosa e terribile cui la mitologica Fata Morgana sembra aver trasmesso i suoi poteri.
Forse ci parla, ogni volta in modo nuovo e diverso, dello splendore della visione di Jean (nome del protagonista di L’Atalante e del suo regista Vigo) nel momento in cui, disperato per aver abbandonato e smarrito la sua Juliette, si ricorda delle parole della moglie (“Sott’acqua si può vedere la donna che si ama”), si getta nella Senna e ad occhi aperti rivede la sua sposa che danza avvolta nel suo radioso abito nuziale, epifania in cui si condensa e si fa mistero tutta la natura e l’avventura del cinema, la storia del suo sguardo.
Fantasma sempre doppio e bifronte quello del cinema, perché se da un lato per metterci in gioco deve illuderci dissimulando la sua finzione, dall’altro ci obbliga a riflettere sul nostro modo di guardare al mondo, agli altri e a noi stessi, ci spinge a pensare per immagini-movimento (secondo la celebre definizione di Deleuze), e non ad evadere dal reale bensì ad esplorarne il nucleo ambiguo e paradossale che risiede certamente al di là delle nostre povere e stanche dicotomie (realismo e surrealismo), e arriva a tra-sparire, di tanto in tanto, in qualche sublime inquadratura o in ciò che in quella inquadratura non si vede e non si ode, ma accade. Come un fantasma.

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