di Girolamo Di Noto

Ci sono film nella storia del cinema che non hanno smesso di far risuonare la loro voce, che colpiscono lo sguardo dello spettatore perché non si limitano a dare di un tema una lettura monodica, ma pongono una riflessione più profonda, di più ampio respiro. Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi non è soltanto un film in cui si narrano gli ultimi sei giorni di vita del condottiero Giovanni delle Bande Nere, capitano dell’esercito pontificio al servizio di papa Clemente VII, che cerca in ogni modo di contrastare la discesa dei Lanzichenecchi di Carlo V, ma può essere considerato uno degli esempi più lampanti della storia della settima arte in cui si riflette sul tramonto di un mondo, quello antico, portatore di valori umani, a discapito di quello moderno, tutto concentrato sull’opportunismo, sul tradimento e sul trionfo della tecnica.

Giovanni delle Bande Nere, educato a una nobile visione dell’arte della guerra, è qui rappresentato come ultimo rappresentante di un mondo il cui codice d’onore si richiamava a princìpi come la fedeltà alla parola data, la lealtà verso gli alleati, il rispetto verso l’avversario. Personaggio eccezionale, dotato di coerenza, dignità e senso del dovere, verrà ferito a tradimento da un colpo di falconetto occultato dietro a un muretto.

L’introduzione delle armi da fuoco non solo rivoluzionerà il modo di fare la guerra, ma costituirà il declino di un’epoca nella quale ‘il mestiere delle armi’ coincideva con la dedizione di un impegno, con la disposizione a morire, con l’abilità del soldato. Nel passaggio dal combattimento all’arma bianca al confronto delle artiglierie un mondo intero muta di segno: se prima l’avversario era affrontato a viso aperto, se un tempo il soldato misurava la sua forza combattendo alla pari, adesso il guerriero viene privato dei suoi attributi epici, spogliato della sua identità eroica e al rispetto per il nemico si sostituisce la viltà che è connessa col colpire da lontano.

Olmi pone l’accento soprattutto sull’etica che celebra la sua impotenza di fronte all’avanzare del nuovo. Il nuovo che avanza ha la volgarità di un sordo boato, presenta la scellerata immagine di un tradimento, quello di Alfonso d’Este duca di Ferrara, che possiede le armi da fuoco e le metterà a disposizione degli Alemanni in cambio di un’investitura e del matrimonio del suo primogenito con la figlia di Carlo V, Margherita d’Austria.

Il nuovo che avanza ha l’aspetto di Federico Gonzaga duca di Mantova che abbasserà il ponte levatoio di Curtatone favorendo lo scorrere rapido dei Lanzichenecchi verso Roma, stabilendo di fatto la sconfitta di Giovanni e l’inevitabile declino politico seguito al sacco di Roma del 1527. “Le nuove armi da fuoco cambiano le guerre, ma sono le guerre che cambiano il mondo”, così dirà Pietro Aretino nel film commentando amaramente il declino di un’epoca ormai al crepuscolo che deve lasciare spazio a una politica in cui avrà man forte l’opportunismo, il tradimento e la doppiezza.

Grazie ad uno stile visionario e ad un’atmosfera quasi onirica che ricorda il cinema di Tarkovskij, Olmi riesce a rappresentare il crepuscolo di un’epoca attraverso la desolazione del paesaggio autunnale, la penombra degli interni, la caligine, l’espressione mesta dei diversi personaggi che popolano il film. Un senso di disfatta aleggia da subito nel film e non è solo perché la guerra porta con sé fame, freddo, stenti e l’approssimazione vicina della morte. Olmi è straordinario con la sua eleganza formale, con l’uso sapiente dei silenzi, con l’attento interesse che lo ha da sempre contraddistinto verso gli umili e le vittime, a mettere in atto un’opera visionaria di poesia e di umanità mettendo in risalto sin dalla prima immagine la spersonalizzazione del guerriero.

All’inizio del film si vede una maschera senza volto di un cavaliere con elmo e visiera abbassata, simbolo di un’umanità disumanizzata dalle armi. È un’immagine saliente che testimonia come la guerra si sia evoluta nel corso dei tempi. Inventate originariamente per “difenderci dalle feroci belve” le armi diventeranno veicolo di morte per prevaricare sui propri simili, mezzi che consentiranno l’ordinato funzionamento della società. Ciò su cui Olmi però pone l’attenzione è il fatto che, con l’introduzione delle armi da fuoco, l’uomo sarà sempre più un semplice ingranaggio in un meccanismo di violenza.

Giovanni sarà il primo a subire le conseguenze funeste di questo cambiamento. La sua fine rappresenta il tramonto dell’identità dell’eroe antico. Nell’Iliade guerriero e armatura facevano tutt’uno sul campo di battaglia, erano strettamente personali. Nell’epoca moderna il soldato perde quell’aura di eroismo e il suo corpo viene sostituito dalla tecnologia. Viene depotenziata la forza del soldato, l’uomo al servizio della tecnica diventa un semplice impiegato, un freddo esecutore passivo. Tutto da quel momento sarà delegato alle macchine e la guerra sarà un processo distruttivo alienante per tutti.

Il mestiere delle armi è anche una parabola sulla caducità della vita, il ritratto di un giovane eroe amato dalle donne e vittima della politica, è la descrizione dettagliata della ferocia di quegli uomini che per riscaldarsi si servono delle panche della chiesa, senza risparmiare neppure un crocifisso, è una magistrale messa in scena di ritratti d’epoca raccontati con realismo e con uno stile fortemente pittorico.

Indimenticabili le scene delle battaglie, quelle selve di lance ispirate ai dipinti di Paolo Uccello, così come il letto di morte di Giovanni ricorda tanto quello del Cristo di Mantegna. La Storia viene raccontata attraverso le immagini, ma anche attraverso le epistole, le citazioni letterarie, gli sguardi fissi in macchina dei narratori. Tutto si mescola nel raccontare la vita di Giovanni delle Bande Nere, tutto concorre a descrivere un crepuscolo, il malinconico commiato da un mondo irrimediabilmente tramontato, che ha lasciato spazio ad un presente incolore nel quale ‘il mestiere delle armi’ non trova più posto e il fascino della dimensione epica è ormai un triste e lontano ricordo.

Rispondi