Melancholia, di Lars von Trier (2011)

di Marzia Procopio

Gli antichi Greci pensavano che la sede degli umori fosse nel corpo, e attribuivano la causa dell’umore malinconico alla “bile nera”, melan-cholia, che secondo Ippocrate era secreta dal fegato e che, in misura eccessiva, provocava sentimenti di tristezza e apatia (l’espressione “essere di umore nero” deriva da questa ipotesi immaginifica poi smentita dai successivi studi di fisiologia). In molte rappresentazioni ed elaborazioni artistiche successive, il tipo psichico del melancolico si presenta con un carattere costante: si augura spesso che il mondo sprofondi e che il destino della fine, che l*i percepisce così acuto e ineluttabile nella vita di ogni uomo, si affermi come evento collettivo e universale. La melancolia è poi messa in relazione, nella cultura antica, non solo alla teoria degli umori, ma anche al dio (e al pianeta) Saturno, che simboleggia l’inesorabile passaggio del tempo, fino alla morte. Il regista danese Lars Von Trier, autore discusso di film celebri come Le onde del destino, Nymphomaniac, Dogville, Dancer in the dark e altri, decise di girare Melancholia (uscito nel 2011) subito dopo un attacco di depressione a seguito del quale il suo terapeuta aveva formulato il postulato che le persone depresse e con temperamenti malinconici agiscano con più calma nelle situazioni spaventose, come se fossero già pronte per la calamità, mentre le persone ‘normali’ tendono ad andare nel panico. Von Trier rielaborò creativamente l’occasione personale e scrisse Melancholia, secondo episodio della cosiddetta “trilogia della depressione” (dopo Antichrist e prima di Nymphomaniac), che mette in scena le ultime ore della vita di due sorelle, Justine e Claire, prima dell’impatto della Terra con un gigantesco pianeta. Il film, piuttosto povero di eventi e tutto giocato sull’analisi dell’interiorità, ha una struttura tripartita: un prologo visionario e immaginifico, la sezione intitolata alla protagonista, Justine, e l’ultima parte dedicata invece a Claire, la sorella di Justine.

La primissima immagine di Melancholia è un grande primo piano di Justine con gli uccelli creati grazie alla grafica computerizzata in 3D che cadono al rallentatore dietro di lei. È un’immagine del suo risveglio: i suoi occhi si aprono lentamente mentre suona l’ouverture del Tristano e Isotta di Wagner. Le immagini scorrono senza essere organizzate in una struttura unificante, in un ralenti che le fa somigliare a un sogno; a fantascientifici pianeti immersi nello sconfinato spazio cosmico si alternano citazioni pittoriche preraffaellite: una donna in abito da sposa, la bionda ed eterea Justine (Kirsten Dunst, bravissima nel reggere le inquadrature, che quasi vivisezionano il personaggio), un’altra donna, Claire (Charlotte Gainsbourg), e un bambino, Leo, figlio di Claire e nipote di Justine (Cameron Spurr); nello spazio siderale, galleggia lentissimo ed enorme un pianeta che alla fine della sequenza entrerà in collisione con la Terra. Mentre alcune di queste inquadrature prefigurano in flash-forward la catastrofe imminente, altre sono proiezioni della mente della protagonista, visioni che non torneranno più nel prosieguo del film, come se il regista volesse indicare una serie di possibilità poi accantonate: l’immagine-icona del film, ad esempio, in cui Kirsten Dunst in abito da sposa giace nell’acqua come l’Ofelia di Millais; l’inquadratura del cavallo che crolla a terra, o l’immagine di Claire con il bambino tra le braccia che affonda i piedi nel prato del campo da golf.

Senza una scena di passaggio, con un’ellissi, il titolo annuncia la seconda sezione, Justine. La protagonista è con il futuro sposo su una Limousine, che resta bloccata sul sentiero di campagna che porta alla lussuosa villa di proprietà del cognato John (Kiefer Sutherland), marito di Claire. Nonostante il piccolo incidente che li fa arrivare in forte ritardo al ricevimento, Justine sembra immune a qualsiasi sentimento di frustrazione o agitazione, immersa in un distacco che non si sa se gioia o indifferenza. Lentamente, però, durante la cena, emerge il carattere malinconico della giovane donna, che si ritira in un luogo remoto del parco della villa e, mentre dentro si svolge il teatro delle chiacchiere superficiali, tra cui spiccano i discorsi-monologhi dei suoi genitori e del suo datore di lavoro, cerca e trova il proprio contatto con la natura: fa pipì nel campo da golf mentre rivolge lo sguardo al cielo, fa un bagno mentre tutti la aspettano per il rituale taglio della torta. Al rientro, Justine maltratta il suo capo, che in tutta risposta la licenzia; subito dopo, il marito se ne va, avendo capito che non c’è una reale possibilità che lei lo ami. Von Trier adotta uno stile narrativo che procede per spezzoni, usando la steady-cam e scegliendo primi piani su Justine, sul suo sguardo statico e sul volto inespressivo che si oppone all’insensata eccitazione degli ospiti, consapevole della vanità di quella festa.

La terza parte è intitolata a Claire, la sorella “sana” e razionale, che porta persino nel nome la pretesa di capire tutto, e che sembra condividere col marito, più per paura del lato oscuro del reale che per fiducia nella ragione e nella scienza, un atteggiamento esistenziale improntato al razionalismo. Nonostante le proteste del marito John, esasperato dal comportamento di Justine durante il ricevimento e in generale dal temperamento malinconico della cognata, Claire accudisce premurosamente Justine, che appare svuotata di forze dopo il fallimento del matrimonio. L’uomo, forte dei calcoli scientifici in base ai quali il pianeta le passerà solo accanto, smentisce le voci della rete secondo le quali il pianeta Melancholia, scambiato già nella prima parte per la stella Antares, la gigante rossa più luminosa della costellazione dello Scorpione, starebbe per entrare in collisione con la Terra. La presenza incombente di Melancholia, paradossalmente, risveglia in Justine la forza e l’appetito, mentre coglie Claire sempre più smarrita. Questa è la sezione del film in cui si assiste al rovesciamento di ruoli fra Justine e Claire: prima dell’apocalisse, infatti, la visione di Justine, il suo sentimento del mondo, le impedivano di affrontare le situazioni della vita e di goderne i piaceri, mentre adesso la rende maggiormente preparata al peggio, alla morte. Claire, che ha creduto alla finzione della solidità e della controllabilità della vita, si rivela troppo scossa dall’imminente impatto per riuscire ad agire; Justine invece, mentre il pianeta si avvicina, escogita un piano per confortare il nipote, Leo, costruendo un tepee improvvisato, una sorta di grotta magica che preservi nel bambino l’illusione della sicurezza. Durante la notte, sembra che Melancholia si sia allontanato, ma all’alba del giorno dopo, al suo risveglio, Claire scopre due terribili verità: il pianeta si riavvicina irrimediabilmente e suo marito, incapace di reggere alla paura, si è nel frattempo suicidato. Ritorna il preludio del Tristano e Isotta di Wagner, che non è solo una grande storia di amore e morte ma sviluppa anche il tema dell’alba colpevole di interrompere la notte d’amore degli amanti.

I personaggi

Più di metà film rappresenta, come già visto, scene dal matrimonio di Justine e Michael. Il ritmo è volutamente lento, funzionale a rendere concreto il processo di distorcimento della realtà prodotto dalla depressione, la quale deforma tutto ciò che ha intorno come una stella deforma lo spazio-tempo: non solo il senso del tempo ma anche il senso di sé e degli altri. Von Trier usa proporzioni distorte che mostrano sia la fine del film che la fine del mondo. Il tempo è alterato, ad esempio, dai ralenti esasperati che privano il tempo della sua dimensione ordinaria; anche lo spazio concesso al ricevimento, con i silenzi di Justine, i suoi sguardi assenti, le chiacchiere vuote, parlano di questa alterazione della qualità temporale. Alternando le scene della festa e le varie uscite di Justine man mano che la donna cade sempre più in profondità nella depressione, sembra che von Trier non riesca a far collimare le due parti della sequenza: Justine cavalca in un golf-cart attraverso i giardini, languisce nella vasca da bagno, ma la festa è sempre lì, sta ancora avvenendo, e quando lei vi ritorna lo fa in preda a stati d’animo sempre più distaccati.

Proprio perché di fatto non succede nulla, il film funziona da studio della natura umana. Tra i personaggi, gli uomini sono figure deludenti, inconsapevoli, inette, poco chiare: il promesso sposo Michael (Alexander Skarsgård), che sembra non rendersi conto di nulla che riguardi Justine, il padre (John Hurt) che ruba ostentatamente cucchiai, il rozzo datore di lavoro di Justine, Jack (Stellan Skarsgård), infine John, il marito di Claire. Il rapporto tra Justine e Michael è abbastanza significativo: l’uomo sembra totalmente inconsapevole della severità della depressione di Justine, talvolta sembra che non si conoscano affatto, e in alcune scene Michael fissa il vuoto come fosse una specie di burattino morto. Il regista non ci dà conto del passato della coppia, perché la depressione deforma il senso del tempo e gli effetti che ha sulle vite delle persone. Anche il rapporto tra Justine e John, che ne è per alcuni aspetti l’antagonista, è particolare: efficiente, integrato, scientista, rassicura la moglie sulle previsioni degli scienziati, ma accumula segretamente acqua e combustibile; alla fine, con il pianeta che si fa sempre più grande di minuto in minuto, mentre Claire si addormenta si toglie la vita lasciando lei e il figlio, da soli, davanti all’apocalittico epilogo. A restare con loro fino alla fine, a sostenere il piccolo Leo nel momento dell’impatto, ci sarà Justine, la zia Steelbreaker che, a differenza di suo cognato, non ha mai finto di credere in un’illusione: la sua preveggenza la fa sembrare pazza, ma la sua “malattia” la rende finalmente più adatta di lui, e più resiliente, di fronte alla catastrofe.

Justine e Claire

All’inizio e alla fine di Melancholia, due mondi si scontrano: il pianeta del titolo si schianta sulla Terra, Justine con Claire. L’asimmetria psicologica che ha caratterizzato il loro legame culminerà nello scambio di ruoli, perché nessuno – è questo il messaggio del film – può dirsi immune dalla depressione, e in ciascuno abitano luce e ombra, malattia e salute. Il cinema di von Trier, del resto, è spesso percorso da una tensione fra opposti (basti pensare a degradazione sessuale e santità ne Le onde del destino): in Melancholia questa tensione assume le forme della contrapposizione complementare delle sorelle, visibile fin dall’aspetto: Claire con i capelli scuri, le unghie laccate di nero e il cinguettio ansioso, Justine eterea e silenziosa, lontana da tutto.

Justine piomba nella quasi catatonia dopo che il suo matrimonio fallisce la notte stessa del matrimonio; quando invece, incoraggiata dalla prospettiva di Armageddon, si rianima, Claire è sconvolta, terrorizzata dall’avvicinarsi di Melancholia. Mentre Justine si predispone al momento tirando fuori tutte le sue risorse, anche inaspettate, sua sorella, normalmente orientata e funzionale di fronte ai compiti quotidiani della vita, va in crisi e diventa inetta. Quando, verso la fine del film, Justine accompagna Claire al tepee di legno, mette in atto la chiara inversione di una scena precedente: Claire aveva condotto la sorella minore in una vasca di acqua calda, sperando che un bagno aiutasse a curare il malessere che sembrava paralizzarla. Nella scena finale, quel malessere appare finalmente “giustificato”: Justine si stava preparando per la fine. Justine, la mascotte dei veggenti incompresi, la Cassandra del cinema, facendo il primo passo nel suo nuovo ruolo si rivolge alla sorella con il suo soprannome e col tono di chi placa un bambino: “Esatto, Clay. A volte è facile essere me.” Pur così differenti, le due sorelle non possono stare l’una senza l’altra, come ciò che rappresentano: l’adesione alla realtà e la fuga nella fantasia, la salute psichica e la malattia; sono opposti che si rovesciano l’una nell’altra, perciò è naturale che la premurosa Claire per ben due volte dica di odiare la sorella, né che l’intuizione di Justine della vanità di tutti gli sforzi si riveli più esatta della fiducia nella scienza di Claire e di John. Dunst, che per Melancholia ha vinto a Cannes il premio per la migliore interpretazione femminile (nonostante le contestazioni al regista, responsabile di alcune affermazioni provocatorie sul nazismo che gli costarono l’espulsione dal festival) incarna alla perfezione il carattere sognante di Justine, che si perde in fantasticherie e squisite passioni. Divenuta celebre con ruoli da dolce innamorata, l’attrice è perfetta nel rendere conto delle oscillazioni del tono dell’umore di Justine. Il ruolo di Gainsbourg non le permette di raggiungere le vette della sua parte in Antichrist, ma l’attrice è straordinaria nel passare dalla donna rigida ed efficiente delle prime sequenze alla fragile e disperata Claire delle ultime immagini.

Lo stile: fonti iconografiche e regia

Melancholia è un trionfo di riferimenti pittorici e musicali. Nella prima immagine ufficiale, Kirsten Dunst è adagiata in un letto d’acqua, circondata dalla vegetazione che i preraffaelliti riproducevano con grande accuratezza. Von Trier cita l’Ophelia di John Everett Millais in una scena metanarrativa fondamentale: Justine sostituisce nello studio della sorella le riproduzioni dei suoi dipinti preferiti, tutti di arte astratta, con quelle de Il ritorno dei cacciatori di Pieter Bruegel il Vecchio (peraltro già comparsi nel prologo, prima dei due pianeti in rotta di collisione), dell’Ophelia di Millais appunto, de Il paese di cuccagna dello stesso Bruegel, del Davide con la testa di Golia di Caravaggio. Sembra di poter mettere in relazione questa sostituzione con qualcosa che Justine dice dopo a Claire, che fa proposte per l’ultima sera sul pianeta nel modo ossessivamente preciso che la contraddistingue, e a cui Justine si rivolge sprezzante: “Vuoi che beva un bicchiere di vino sulla tua terrazza? Che ne dici di una canzone? La Nona di Beethoven, qualcosa del genere?”. Questa battuta sembra voler rimandare all’idea che il lavoro di Beethoven derivi dalla cultura e dalla scienza “alte” che hanno prodotto il capitalismo industriale con il suo portato di morte e distruzione. Di cosa essere gioiosi, quindi? Come dire che gli uomini farebbero bene a tornare alle visioni del mondo pre-illuministiche, così come Millais, Bruegel, Caravaggio e la loro estetica inquietante sembrano voler ripudiare le prospettive moderne con il loro portato di false certezze, di false geometrie.

Se la suddetta scena la dipinge come l’Ofelia di Millais, che affoga nel suo abito da sposa e stringe il bouquet, un’altra la vede distesa lussuriosa sulla riva del fiume, in comunione nuda con il pianeta omicida, come ricaricata dalla sua pallida luce: la sua espressione è contenta, complice, scaltra. Questa scena fa parte di una serie di inquadrature che includono due immagini ancora più suggestive nella sequenza di apertura: Justine prima in piedi sul campo da golf con piccoli fulmini che le scorrono dalle dita, poi che indossando il suo abito da sposa tenta di districarsi dai viticci, simili a ragnatele che l’hanno irretita. Sono immagini di sfida e potere, sembrano voler evocare la “danza della morte” di Justine con Melancholia, il pianeta impazzito.

Dal punto di vista registico, von Trier affianca alcuni stilemi del Dogma 95: assenza di colonna sonora, uso insistito della macchina a mano, che allontanando lo spettatore lo richiama alla riflessione sui temi trattati. All’opposto, invece, si pongono l’uso di effetti speciali in post-produzione e un calligrafismo visivo che è stato paragonato a quello adottato nello stesso anno da Terrence Malick in The Tree of Life, che a Melancholia somiglia per la visione della Natura potente, maligna e distruttiva, oltre che per la cura formale e lo stile iconografico. Qui la qualità e l’apporto visivo dell’inquadratura, che non hanno una funzione narrativa, insieme agli effetti speciali e a un certo stile fotografico che ricorda i servizi di Meisel per Vogue danno vita a uno stile iper-estetizzato (colpevole di ricordare la pubblicità: non a caso l’ambiente di lavoro di Justine) che propone un modello di femminilità mitico-oracolare: una bellissima sirena-zombie o una donna gabbiano che si crogiola in una landa tossica.

Nichilismo attivo e passivo: forma di conoscenza e resistenza politica

Quello che la critica, all’uscita del film, definì come il vuoto paralizzante della depressione, sembra essere in realtà l’esercizio chirurgico di un’intelligenza e una presenza di spirito tenaci che fanno di Justine una sorta di dea della verità, come nella scena in cui dice al suo capo, alla festa, che è un “omino spregevole e assetato di potere”. Justine ricorda Cassandra, la mitica figlia di Priamo la cui capacità di vedere nel futuro le conferisce la lucentezza del delirio. Destinata a dire la verità e a non essere mai creduta, come tutti gli emarginati combatte una battaglia anche politica. La depressione di Justine, che la paralizza impedendole di aderire con autenticità al gioco del mondo, racchiude la sua misteriosa conoscenza, la sua lotta contro il conformismo sociale. Il suo nichilismo ripudia ogni celebrazione delle “magnifiche sorti e progressive” che si rivelano così inutili per Claire e John di fronte alla catastrofe. La depressione di Justine è un’affermazione in negativo: “Io sono e rimango ciò che tu non vuoi che io sia”; un tipo di nichilismo rassegnato, ottimista, un’accettazione della finitezza di tutte le cose: col passare del tempo, spogliata di ogni bagaglio mondano – niente marito, niente lavoro, niente figli – la giovane donna diventa sempre più serena. Justine esercita due forme di nichilismo: aggressivo e passivo, in quest’ordine. La prima vede mettere in discussione le strutture “solite”: matrimonio, lavoro, responsabilità familiare, mentre il secondo la vede riconciliata all’imminente distruzione del pianeta. Questi nichilismi possono essere visti come modelli di conoscenza molto più adatti della posizione nevrotica detenuta da Claire, o della modalità economico-razionale rappresentata da John, che si estrinseca nella frase ripetuta come un mantra “devi fidarti degli scienziati”. Justine è molto più sana del resto della sua famiglia. Le conversazioni ampollose e alto-borghesi che si sentono durante il ricevimento riflettono prospettive assolutamente inadeguate ad affrontare l’imminente catastrofe.

Il film ci invita a ripensare alla melancolia non come dolore, senso di colpa, paralisi mentale ma come a una sorta di “disforia militante”. In questa prospettiva, Melancholia assume i caratteri di una parabola sovversiva, perché la depressione “oggettiva” di Justine (la sensazione del depresso che nulla importa, che siamo tutti condannati comunque si trasforma in fatto) la mette nelle condizioni di capovolgere la sua soggettività, dal momento che sa relazionarsi molto meglio con un pianeta distruttivo di quanto non possa fare con suo marito o la sua famiglia: in tal senso, vi si può leggere anche un’altra “morale”, e cioè che la donna depressa è una minaccia perché è disancorata e instabile, e resistente al fascino dell’universo maschile.

L’elemento del malinconico è la terra, è Saturno dio delle messi, del tempo che rigenera; lo sguardo del depresso trascina verso il basso, nella terra fredda di cui il dio è, appunto, signore: in una scena del prologo, Justine tenta faticosamente di camminare nel suo abito da sposa, mentre rami e radici la rallentano allacciandole polsi e caviglie. La malinconia però non è solo pesantezza e senso tragico della fine, ma anche potenza creatrice, fantasia, sapere pre-temporale e mistico. Justine “sa le cose”: sa che ci sono 678 fagioli nel barattolo del matrimonio, e afferma in lacrime, in una delle ultime conversazioni con Claire: “la Terra è malvagia, non dobbiamo addolorarci per questo”. Il mondo borghese abitato da Claire, John e dal loro figlio Leo, al contrario, è chiuso e kitsch: Claire cerca la perfezione (con il matrimonio, con il cioccolato che mette sul cuscino di Justine, con il suo disperato desiderio di ordine) ma Justine sa che è tutto inutile. Fra i diversi segni premonitori della collisione, spesso ricorre nel film l’immagine del ponte che separa la tenuta dalla strada che porta in paese, che i cavalli si rifiutano di oltrepassare e di fronte al quale il caddy si spegne: l’immagine non solo della condanna di Claire e dei suoi all’isolamento, ma anche della solitudine radicale di ciascuno nella morte. E così sarà: sotto il fragile tetto della capanna di rami, Leo, Claire e Justine, “Zietta Spezzacciaio”, aspetteranno la fine, ma l’impatto coglierà Claire incapace di aderire al triangolo di conforto, i soli Leo e Justine con le mani intrecciate per darsi forza nel momento supremo.

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