Strappare lungo i bordi, ZeroCalcare (2021)

di Marzia Procopio

“È successo, è caduto come una pera cotta. L’hanno visto tutti. – Ma si è fatto male? – Un po’, ma poi passa! – Ma gli esce il sangue dal ginocchio? – Un pochino, ma il giorno dopo si sta già facendo la cicatrice! – Alice, ma la cicatrice quando passa? – La cicatrice non passa, è come una medaglia che nessuno ti può portare via. Così quando Zeta è grande e ormai il principe non gli fa più paura, si ricorda che ha vissuto, che ha fatto tante avventure. Che è caduto e si è rialzato – Ma perché non passa? – Perché è una cicatrice, se andava via con l’acqua era un trasferello. È una cosa che fa paura ma è anche una cosa bella: è la vita.”

Ritrovata la poesia che forse aveva perduto ultimamente in quel contenitore talvolta autocompiaciuto di Propaganda live, ZeroCalcare conquista Netflix con la sua serie di animazione Strappare lungo i bordi. Sostenuto nell’analisi delle sue “non avventure” – gli incontri ordinari e straordinari dell’esistenza, primo fra tutti l’amore non consumato con Alice, con la quale può esserci una corrispondenza ma non un dialogo – dalla presenza saggia e fedele dell’Armadillo, che ha la voce ironica di un sempre più bravo Valerio Mastandrea, di Sarah e del Secco, gli amici di sempre dell’autore, il fumettista romano ci disegna il quadro di una generazione di irrisolti, gli ultimi ad aver avuto speranze, forse anche qualche occasione, che pure hanno gettato via perché non erano speranze così salde, e perché così è più facile non solo fare teatro di sé, camminando su trampoli esistenziali che si nutrono di riflessioni fini a se stesse e paralizzanti indecisioni, ma anche camminare attraverso le singole esistenze con passo elastico e andatura dinoccolata osservando le cose del mondo: l’amicizia, l’amore, il lavoro, la politica e le ideologie, le caratteristiche e i difetti dei prodotti televisivi, che nella progressiva perdita di un orizzonte “borghese”, delle possibilità di incontri reali con l’altro, della fiducia nella possibilità di inserirsi e costruirsi un sistema (il matrimonio è il patrimonio) diventano specchio, conforto, attesa.

Nelle divertentissime puntate c’è spazio per tutto: la fenomenologia dell’amore mancato e delle paure che ci incutono i rapporti sentimentali, la descrizione esilarante dei bagni pubblici degli uomini, la critica pungente del patriarcato e del capitalismo. Commovente, autentica, universale, la serie dispensa pillole di umanità senza giudizio, perché il primo bersaglio dell’esame è il protagonista stesso, che ha amici veri e però anche immaginari e attraversa la vita con il filosofico disincanto di chi sa quanto essa sia fragile e un po’ ridicola. Lo fa in sei brevi episodi, distillando temi e piccoli eventi che, delineando un diario minimo, individuano un orizzonte esistenziale privato e valido per tutta una generazione, quella dei nati negli anni ‘80, ma forse anche per quella dei quasi cinquantenni.

Presentata alla Festa del cinema della sua Roma, rilasciata come di consueto tutto insieme il 17 novembre sul canale streaming Netflix, la serie di Michele Rech è già nella storia dello spettacolo italiano, destinata a diventare un classico perché individua ansie, frustrazioni, disillusioni non di una, ma di due generazioni, quella degli anni ‘70 e quella degli anni ‘80, ma lo fa con rispetto e tenerezza, regalando al pubblico un’esperienza sensoriale completa, come l’ha definita il suo autore, che cura anche la colonna sonora scegliendo pezzi coerenti col testo – immagini e sceneggiatura- che ne intensificano il gusto. Pezzi anni ‘80, sigla affidata a Giancane (che aveva già scritto Ipocondria per la serie sulla quarantena, Rebibbia quarantine), brani pop degli anni Ottanta e Novanta, da Ron al rap francese a Tiziano Ferro passando per gli M83. “Spettatore veterano”, appassionato a sua volta di serie tv e cinema, Rech replica la linea compositiva orizzontale della Profezia dell’armadillo, ora come allora inserendovi i singoli episodi, e lo fa con grande consapevolezza e cura: dei disegni, precisi fin nei minimi dettagli, della regia, della storia. Il messaggio è che siamo leggeri, troppo, che continuiamo a fare e farci del male, e lo facciamo con quel sarcasmo che in linea teorica dovrebbe renderci la nostra inadeguatezza più accettabile, ma con un residuo di amarezza che non passa. Frasi che sono già antologia, “master in pippe mentali” e atavico, inutile senso di colpa, dibattito gender, G8, psicanalisi e linguaggi inclusivi, filosofia greca, tutto condensato in puntate brevi, concentrati di una filosofia morale e di una Weltanschauung frammentaria ma evidente: abbiamo la possibilità, nel brevissimo arco di tempo che la Moira ci concede, di vivere secondo i bordi che sono stati tratteggiati dalle convenzioni e dai dettami della società borghese, o scegliere lo sguardo laterale sulle cose che ci permetterà di disegnarci da soli la silhouette ideologica, etica, affettiva più autentica, ancorché precaria, possibile.

Altre considerazioni (dopo una settimana)

A una settimana dall’uscita, dopo le critiche sul romanesco, vale la pena fare alcune considerazioni, ma non solo su questo. ZeroCalcare aveva già trattato il tema psicologico, il senso di perpetua inettitudine alla vita borghese che ritroviamo, peraltro, nella narrativa italiana dei primi del ‘900; singolarmente, Rech sceglie come nome d’arte Zero, forse tenendo presente il trattamento riservato da Italo Svevo/Aron Hector Schmitz al suo anti-eroe Zeno Cosini: altro segno, se servisse, dell’estrazione “alta” della poetica di ZeroCalcare. Alla serie sono imputati due limiti: la trama debole e il linguaggio. La linea orizzontale della trama, un po’ debole, che si conclude in modo imprevedibile, si tiene in effetti sugli episodi, abbastanza svincolati gli uni dagli altri, che da sempre sono la specialità del fumettista romano; ma questi si tengono sull’altro elemento criticato, che invece è un punto di forza, e cioè quel romanesco su cui si è incentrata l’inverosimile polemica social di questa settimana: un linguaggio che è stato (correttamente) definito popolare e pop, permeato però da una cultura di base che viene a Rech dalla sua formazione liceale, acquisita nel celebre, esclusivo liceo francese di Roma, lo Chateaubriand a lui rimproverato, che però Zero sa elaborare finché non diviene, come dovrebbe sempre essere, stile espressivo autentico, mescolato alla romanissima ironia già esperita dal pubblico in questi dieci anni. Un’ironia per alcuni destinata a non piacere più già sul breve periodo nonostante sia ora l’elemento che conquista, insieme ai personaggi: il Secco, il Cinghiale, l’Armadillo, la Madre sono in realtà tipi, più che personaggi, che agiscono in una realtà sociale immobile, come la città che abitano e che ispira la loro lingua, il loro idioletto: la “parole-Zerocalcare”, il criticatissimo, “incomprensibile” romano che l’autore, con una trovata di cui i più distratti si accorgono solo dopo un po’, usa per doppiare inizialmente da solo tutti i suoi personaggi. Come a dire che di voce c’è solo la sua, finché loro non si conquistano la propria, in un passaggio dal monologo allo specchio al confronto critico sulla realtà.

I detrattori, alcuni feroci e livorosi, della serie di animazione, rimproverano a ZeroCalcare la scelta del romanesco veloce, biascicato, della periferia di Roma, di un quartiere conosciuto perché ospita il carcere più affollato della capitale, dimenticando (o ignorando) la distinzione saussuriana fra “langue” e “parole”, non considerando in altre parole il fatto che parliamo come siamo e pensiamo: la lingua è un fatto identitario, e ZeroCalcare e i suoi amici sono quel romanesco lì. È attraverso quella “parole” lì che Zero, Secco, l’armadillo, Sara (non Alice, non a caso) si costruiscono e sono costruiti dall’artista, che insieme a loro e al loro modo di parlare edifica simbolicamente il mondo comune e i mondi privati di ciascuno; ogni personaggio, in ogni opera letteraria e drammatica, vive in un contesto sociale, economico e culturale che non è avulso né separabile né dallo spazio linguistico né, ovviamente, dall’orizzonte psichico e mentale. La maggior parte delle persone lo ha capito e apprezzato, perché Michele Rech è così anche nella sua vita reale, e il pubblico mainstream, che scemo non è, lo ha capito e premiato: Rech sceglie di essere autentico, fedele a se stesso e alla sua educazione sentimentale, anche rinunciando ad accontentare tutti i fruitori e gli utenti di quell’enorme bacino che è Netflix.

C’è anche un altro aspetto, legato al tema emotivo e alle sue cause sociali: i quarantenni hanno ereditato, dai loro padre sessantottini e dai loro nonni del secondo dopoguerra, una lettura del reale in cui non si possono riconoscere; e il senso di estraneità, il disagio esistenziale, il senso di inappartenenza e solitudine che provano, il conseguente stile di coping – la fuga e il ritiro sociale mascherati (la playstation, le canne, il calcio, le serie tv, il gelato) – si possono veicolare solo attraverso un linguaggio non normalizzato, non borghese, privato, che marchi la distanza con l’altra società, quella più o meno realizzata delle generazioni precedenti; un idioletto, si badi bene, in cui le successive, anche i millennials, si stanno pienamente riconoscendo. Assimilabile, in qualche modo, al monologo finale di Renton in Trainspotting, compendiato dal verso di Strappati lungo i bordi di Giancane, “È tutto giusto/Il mio disgusto”, quindi non devo sentirmi in colpa se, con l’Armadillo, decido di non andare: “intanto vai tu, io te raggiungo col coso…come si chiama…coso”: la langue di “Zeno” rivendica il diritto di una generazione a sentirsi filo d’erba – e ad arrendersi (Alice) senza per questo sentirsi in colpa.

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