di Bruno Ciccaglione e Lucia Scaccia

La più bella e per certi aspetti inattesa novità del film in tre parti di Peter Jackson Get Back, è che pur documentando il momento critico in cui l’esperienza dei Beatles sta per sfaldarsi, ci restituisce il miracolo di “quattro ragazzi in una stanza” (come ha detto Ringo Starr), che nonostante tutto ancora si divertono a fare musica. Inoltre, anche se l’uscita del film sembra aver riesumato molti luoghi comuni sulle cause dello scioglimento della più influente delle band del ventesimo secolo, Get Back fotografa invece la complessità del momento che il gruppo attraversava e finalmente riequilibra ogni narrazione troppo ansiosa di individuare i colpevoli della fine di quella esperienza.

A oltre cinquant’anni dallo scioglimento dei Beatles, con un anno di ritardo a causa della pandemia e con il cambio di formato da film a miniserie televisiva, è finalmente uscito sulla piattaforma Disney + l’attesissimo documentario realizzato attingendo da quasi 60 ore di filmati inediti e 150 ore di registrazioni audio inedite. Per 21 giorni i Beatles, come nel più incredibile Grande Fratello della storia del rock, sono stati filmati e registrati ogni giorno mentre in studio di registrazione realizzano un album, con l’idea di realizzare anche un documentario e poi uno show televisivo in cui si esibiranno dal vivo, dopo che da anni avevano deciso di non suonare più di fronte ad un pubblico. Il progetto cambierà in corso d’opera per far fronte alle numerose difficoltà, da quelle dei dissidi interni al gruppo a quelle di tipo pratico, per concludersi poi con il famoso concerto sul tetto, ultima esibizione dal vivo dei Beatles prima dello scioglimento.

Nonostante la trasformazione da film in miniserie, l’opera, divisa in tre puntate – ciascuna di circa 2 ore e mezza o anche più – ha tutta la dignità di un film vero e proprio e la divisione in tre parti è molto opportuna, perché coglie davvero tre fasi del racconto. È un film di montaggio di materiali d’archivio, ma che riesce benissimo con gli strumenti del cinema a offrire una narrazione che ha una sua drammaturgia molto chiara.
Part One (Days 1 to 7)

La prima parte – la più scura e ricca di tensione – si svolge quasi completamente negli studi cinematografici di Twickenham, dove la Apple Films deve girare il film The Magic Christian, che avrà come protagonisti Peter Sellers e Ringo Starr. Visto che il progetto iniziale dei Beatles prevede oltre alla realizzazione di un album anche quella di un documentario e di uno show televisivo con la presenza del pubblico, per ragioni di economia si pensa di realizzare tutto in questo unico spazio. Ma in questa prima parte, che pure non manca di momenti giocosi e di puro divertimento, a prevalere sono le spinte centripete che ciascuno imprime alla dinamica del gruppo. McCartney sembra l’unico a credere ancora di poter salvare la band, ma continuando a spingere per dare un senso al lavoro assume spesso un ruolo di leadership che gli altri mal sopportano (“Non piace neanche a me comportarmi da boss”, dice a un certo punto). Lennon sembra ormai già altrove, non concentrato, porta con sé Yoko Ono e la vuole accanto ininterrottamente perfino durante la scrittura dei brani e le prove, non accenna a smettere di suonare la chitarra quando Paul prova a parlare con lui e sembra ritrovare entusiasmo solo quando si occupa delle scenografie che lo show dovrebbe avere.

Harrison, che è il più spirituale dei quattro (alcuni suoi amici Hare Krishna sono delle stravaganti presenze silenziose sul set), soffre più di ogni altro questa sovraesposizione tra cineprese e registrazioni di tutto quel che avviene. Ringo Starr è il più rilassato, ma per questo è l’unico che parla con tutti e forse è quello che più degli altri viene accettato nel ruolo del mediatore. Al culmine della crisi – con George che decide di lasciare i Beatles – è a casa di Ringo che i quattro si incontreranno per tentare di ricomporre la frattura. Il momento in cui George se ne va è uno dei più drammatici. In studio si ritrovano incerti sul da farsi e sul futuro i tre Beatles rimasti. Coi loro strumenti si lanciano in una improvvisazione quasi rumorista e di avanguardia, che è lo sfogo improvvisato e nervoso di tutta la loro frustrazione. Partecipa anche Yoko Ono, anticipando qui il suo lavoro da performer di avanguardia con la sua voce urlata. Alcuni hanno voluto vedere in questa sua partecipazione un maldestro tentativo di “prendere il posto lasciato vuoto” da George, mentre a chi scrive è sembrato più un modo per empatizzare con gli umori della band e partecipare attivamente allo sfogo.

Part Two (Days 8 to 16)

La seconda parte è quella più ricca di musica, divertimento, gioia. Pur senza ancora aver stabilito esattamente quale sarà l’esito finale del progetto, i quattro giovani (erano tutti sotto i 30 anni) concordano che per andare avanti sia necessario “tornare a casa”, negli Apple Studios, al numero 3 di Savile Row, un ambiente per tutti più intimo e familiare, che però richiede non piccoli aggiustamenti tecnici prima di essere tecnicamente adeguato.

I Beatles si divertono ancora, nonostante tutto, a suonare insieme e vederli al lavoro è una delle cose più stupefacenti e belle di questo film. Per ritrovare lo spirito del suonare davvero insieme si decide che l’album dovrà essere composto solo da brani eseguiti dal vivo e senza sovraincisioni (intento in parte poi tradito dalla decisione di Lennon di coinvolgere Phil Spector a registrazioni già ultimate) e quindi i brani devono essere prima scritti e poi imparati, magari suonando uno strumento che non è il proprio (per inciso: tutti suonano tutti gli strumenti e anche bene, compreso il troppo bistrattato Ringo).

Vedere il processo creativo realizzarsi davanti alle cineprese è un’esperienza incredibile. Vediamo Get Back nascere dal nulla in un’improvvisazione di Paul, senza ancora le parole, ascoltiamo anche noi la prima versione di I me mine di George, che racconta come a ispirarlo siano stati i valzer viennesi visti in tv la sera prima, assistiamo al continuo aggiustamento delle liriche dei brani appuntati su fogli volanti dagli stessi Beatles o dal loro road manager. Ma assistiamo anche all’esecuzione, per puro divertimento, di una quantità enorme di cover degli idoli della loro adolescenza, da Elvis Presley a Little Richard, da Ray Charles agli Everly Brothers, come pure di loro vecchie canzoni giovanili alcune addirittura mai pubblicate. Tanti i momenti di gioco e di svago puro (memorabile e comicissima una scena in cui Paul e John cantano Two of us a denti serrati come se fossero dei ventriloqui).
Part III (Days 17 to 22)

La terza parte, anche drammaturgicamente, è il coronamento delle prime due. Pian piano i Beatles hanno aggiustato il tiro e devono ora giungere ad una sintesi. Anche perché Ringo deve iniziare le riprese del film e l’ingegnere del suono Glyn John, che sta registrando e deve mixare l’album, sta per partire per gli USA. Bisogna quindi finalizzare tutto in tempi rapidi. Abbandonata l’idea di uno show televisivo, oltre all’album resta quella di un concerto dal vivo con il pubblico e l’idea che alla fine risulta convincere tutti è famosa: l’esibizione avverrà sul tetto della palazzina della Apple e il pubblico sarà quello dei passanti che dalla strada casualmente ascolteranno la musica, assieme a quello dei più fortunati che riusciranno a salire sui tetti vicini o che da finestre e balconi avranno una visuale dell’esibizione. Oltre naturalmente al pubblico che vedrà i filmati che ben 9 cineprese realizzano durante la performance.

Questa ultima parte del film di Jackson dunque è un po’ il racconto del percorso che porta la band, negli ultimi giorni disponibili, a salire dal seminterrato in cui si sta registrando l’album fino al tetto del palazzo per la prima esibizione dal vivo dopo anni, che sarà poi l’ultima esibizione dal vivo dei Beatles. Il clima, anche se ancora si sentono le frizioni tra i diversi punti di vista di ciascuno, è molto bello. Se nella prima parte del film era un po’ strana la presenza di Yoko Ono seduta a fianco di Lennon per tutto il tempo, come quella degli Hare Krishna amici di George, qui pian piano arrivano le famiglie (bellissimi gli scherzi di John e Ringo con la piccola Heather, figlia di Linda Eastman che di lì a poche settimane convolerà a nozze con Paul).

La performance sul tetto, che pure fino alla sera prima destava qualche dubbio in diversi dei componenti della band, si rivelerà assolutamente esaltante per tutti, anche per il gusto irresistibile di fare qualcosa di nuovo e di insolito, oltre che naturalmente di proibito.
Conclusione

Paul McCartney ha di recente dichiarato che la visione di Get Back lo ha riconciliato pienamente con l’idea che in lui si era un po’ cristallizzata riguardo allo scioglimento dei Beatles: si era sempre sentito in colpa, racconta, per essere stato il primo a rendere pubblico il distacco dal gruppo (anche se il gruppo era già sciolto di fatto, con ciascuno a lavorare già alle sue cose). E probabilmente la stessa percezione diffusa nel tempo è sempre stata di un Paul un po’ “egocentrico” e prepotente. Il film gli restituisce invece il ruolo del solo che creda ancora al gruppo, che lotti per salvarlo. Anche Ringo, che come tutti gli ex Beatles aveva odiato il film Let it be per la cappa oppressiva che attribuiva allo stesso periodo qui rimontato, ha invece speso parole di lode per Get Back, per la sua capacità di raccontare anche il legame unico tra questi quattro ragazzi. Non a caso tra i produttori del film risulta anche Yoko Ono, assieme a Paul e Ringo e idealmente si è riunita, a sostegno del film di Jackson, tutta la famiglia dei Beatles: la moglie e il figlio di George, i figli di John e Ringo.

Dunque un film imperdibile, che emoziona, che senza fare agiografia celebra una delle esperienze culturali più straordinarie del ventesimo secolo. Probabilmente un’opera troppo lunga per chi non sia già addentro alle vicende dei Beatles, non altrettanto facile e popolare come è stata per varie generazioni la musica dei ragazzi di Liverpool, ma dalla forza travolgente per chiunque li abbia amati sinceramente.