di Roberta Lamonica
Cadono i fiori di ciliegio
(Yosa Buson)
sugli specchi d’acqua della risaia:
stelle, al chiarore di una notte senza luna

C’è una antica tradizione in Giappone. Si chiama Hanami: è la contemplazione della fioritura degli alberi di ciliegio in primavera. Da più di un millennio i giapponesi celebrano questo evento legato alla rinascita e alla vita ma anche alla caducità e alla precarietà delle cose. La fioritura dei ciliegi è uno spettacolo bellissimo ma transitorio e destinato a finire, ineluttabilmente e inesorabilmente.
La fioritura dei Sakura, la celebrazione di un rito, il ciclo di rinascita e morte: questo è “Tokyo monogatari”, (trad. Ital. “Viaggio a Tokyo” 1953) di quel Yasujirō Ozu il cui cinema Wim Wenders ha definito “il più prossimo alla sua essenza e al suo scopo ultimo”.
Yasujirō costruisce un film perfetto, delicato ed essenziale con la leggerezza e la grazia di chi sta godendo dell’hanami in una tiepida giornata di primavera.

Una storia semplice, di persone comuni. La macchina da presa fissa, posizionata in basso a entrare nell’intimità di una famiglia qualsiasi, con una storia qualsiasi che diventa, invece, emblema della storia di un popolo. Dialoghi scarni, scambi essenziali in cui anche la più brutale delle verità viene rivelata con candore e innocenza. Una simmetria e una perfezione formale tali da rendere ogni fotogramma un’opera d’arte conclusa in se stessa per stile e forza espressiva.

La trama ripercorre un motivo narrativo fra i più classici, quello della ‘riunione di famiglia’: due anziani coniugi partono dal villaggio di Onomichi alla volta di Tokyo per andare a trovare i propri figli. I due hanno perso un figlio durante la guerra. Mentre cercano in ogni modo di connettersi con i figli rimasti, si legano alla vedova del figlio morto, l’unico altro personaggio significativamente colpito dalla guerra. Al loro ritorno un triste evento segnerà il punto di arrivo e il senso profondo del viaggio. Un viaggio colmo di aspettative, un viaggio costellato di delusioni. Un viaggio che, con levità e garbo, racconta la fine di un mondo di tradizioni millenarie custodite e rinnovate con amore dai Padri e l’inizio del mondo schizofrenico e occidentalizzato che ha la sua piena espressione nella metropoli giapponese post bellica, dove altruismo e interesse personale sono in forte conflitto. Le figure genitoriali tradizionaliste contrastano con i figli, individualisti e più occidentalizzati. Egoisti e comunque disorientati. Questo divario generazionale brusco e non armonioso segna irrimediabilmente le relazioni familiari e affettive.

Ozu parlava raramente di politica ma in Tokyo Story questa dimensione è abbastanza. In una scena del film i due anziani e la nuora vedova si imbarcano in un tour in autobus di Tokyo ma viene omessa ogni informazione sugli ingenti danni che la città ha subito dai bombardamenti alleati. Questo fa pensare al film come a una sottile critica all’amnesia storica. Invariabilmente ostracizzati da altri personaggi, i due genitori e la nuora simboleggiano la rapidità con cui i giapponesi si sono allontanati dal nazionalismo bellico e hanno abbracciato l’occupazione americana. In questo senso, il film nel suo insieme offre un ritratto dell’ipocrisia politica e della sconcertante, persino esasperante plasticità del Giappone della metà del XX secolo. Ma i Padri sono custodi della memoria: sanno e si inchinano al cambiamento (anche quando è assai doloroso) con un autocontrollo e un equilibrio che sono a noi sconosciuti, con la misura di chi guarda l’ultimo petalo staccarsi dal ciliegio e volar via; con la consapevole e serena rassegnazione al fatto che anche l’ultimo, proprio quell’ultimo petalo, in fondo, era destinato a cadere.
