L’avversario, di Nicole Garcia (Fra, 2002)

di Bruno Ciccaglione

“C’è una cosa peggiore dell’essere scoperti. Il non esserlo!”
Emmanuel Carrère, L’avversario (2000)

Il dilemma del come raccontare delle storie vere, soprattutto quando hanno segnato duramente la vita e la sensibilità di molte persone, è centrale per ogni autore che voglia raccontare la realtà. La letteratura e il cinema lo fanno entrambi, ma inevitabilmente in modi diversi. Ci voleva grande intelligenza, cura e consapevolezza del linguaggio specifico del cinema per mettere in scena una storia come quella raccontata dal romanzo-verità L’avversario, pubblicato nel 2000 da Emmanuel Carrère, basato su un drammatico caso di cronaca che aveva scioccato l’opinione pubblica francese nel 1993.

Analogamente a quanto era avvenuto a Truman Capote, che letta la notizia di una strage in Kansas aveva deciso di occuparsi di quella storia per scrivere un tipo nuovo di romanzo (A sangue freddo, il primo nonfiction-novel, romanzo-documentario), appresa la vicenda incredibile di Jean-Claude Romand, Carrére aveva desiderato scrivere di quella tragedia. Se Capote aveva pagato a duro prezzo il proprio modo perverso e contraddittorio di gestire l’intreccio tra la dimensione artistica e quella personale di una relazione coi due criminali responsabili della strage, Carrére decide di giocare a carte scoperte con il lettore e parla in prima persona e sinceramente di tutti i dubbi che lo attanagliano nel relazionarsi con il protagonista della sua storia*.

Carrére, che nella sua carriera ha realizzato diversi capisaldi di quel modo nuovo di concepire il romanzo che è stato chiamato auto-fiction, pur senza la minima indulgenza verso il criminale, scopre col suo romanzo un lato tragico del protagonista e al solito lo fa proprio aiutandoci non a empatizzare con lui, ma a farci cogliere in lui quei tratti che ciascuno di noi, in potenza, è in grado di percepire come propri. Come Nicole Garcia ha raccontato, è questo lato tragico del personaggio, rivelato da Carrère, ad averla interessata, più della vicenda di cronaca in sé.

Emmanuel Carrère

“Questa storia, solo la vita poteva permettersi di inventarla”, dirà Nicole Garcia in una intervista. Nessuno scrittore o sceneggiatore inventerebbe la improbabile storia di un uomo che a partire da un esame universitario non affrontato, comincia a mentire a tutti i suoi amici e familiari, continuando a farlo per 18 anni e inventandosi una carriera prestigiosa da medico, truffando tutti per garantire a sé e alla sua famiglia uno stile di vita coerente con le sue menzogne, che sul punto di essere scoperto decide di sterminare moglie, figli e genitori, per poi tentare maldestramente il suicidio, sopravvivendo.

Il vero Jean-Claude Romand

Nicole Garcia, conosciuta soprattutto per la sua importante carriera come attrice, che dagli anni ’90 inizia una nuova fase della sua attività come regista e sceneggiatrice, si dimostra qui capace di esplorare i meandri della mente enigmatica di un uomo dannato, ma soprattutto di farlo con un film che ha il coraggio di affrontare a modo proprio, la storia che Carrère aveva trasformato in romanzo.

Nicole Garcia

Se lo scrittore nel corso degli anni aveva seguito personalmente tutto l’iter processuale e poi stabilito una corrispondenza con il condannato (in questo facendo qualcosa di analogo a Capote), si era poi mostrato ben poco entusiasta all’idea che Garcia ne traesse un film, tanto che le consigliò di usare soprattutto gli atti processuali come base per il lavoro, piuttosto che il suo libro e in ogni caso decidendo di non collaborare al film.

Nicole Garcia riesce dunque in una difficile sfida, innanzitutto perché non ha la presunzione dell’artista che crede di poter spiegare ciò che gli amici e i parenti del protagonista della storia non hanno saputo capire in diciotto anni di menzogne, nascoste da una tranquilla quotidianità borghese. Consapevole che non tutto quel che è lecito e giusto fare in un romanzo lo sia poi in un film, sceglie di raccontare la storia in modo diverso da Carrère, escludendo tutto il racconto del processo a carico dell’imputato, che era il meccanismo che il libro usava per le sue continue incursioni nel passato.

Il film dunque, da un lato esclude tutto il modo in cui l’imputato ha costruito la propria narrazione durante il processo (in cui ha raccontato, in udienze drammatiche, tutti i fatti, senza che tuttavia questo abbia svelato molti dei misteri su cui ci si interroga, i perché di quel che ha fatto) e dopo (tutto il crescente misticismo che egli negli anni presenta al mondo come ciò che gli permette ancora di vivere). Ma d’altra parte, Garcia decide di raccontare tutta la vicenda dal suo punto di vista, quasi come se avesse scelto la prima persona, il che sarebbe stato inaccettabile nel romanzo. Nel farlo dà alla narrazione una freddezza e una ambiguità che evita ogni moralismo, ma anche ogni empatia. In un certo senso svela lo stesso lato tragico scoperto da Carrère, ma ci riesce proprio perché “tradisce” il libro nella trasposizione cinematografica.

Per Garcia, infatti, ciò che rende la storia di Jean-Claude Romand tragica e unica è il tempo, sono quei 18 anni: “Immaginate la forza che gli è servita per tenere fede alla sua finzione, giorno dopo giorno (…). Ha messo in scena il vuoto della sua vita e ha recitato la sua parte, senza mai far cadere la maschera. Piuttosto che toglierla, ha preferito uccidere. È una storia di resistenza, il contrario di un impulso. Cosa c’era di così terribile nell’ammettere i suoi fallimenti? Cosa ha dovuto affrontare quest’uomo intelligente per arrivare a questo punto? Sfugge alla spiegazione. Inoltre, il film, a differenza del libro, che racconta le crisi mistiche del detenuto Romand, si ferma ai crimini di sangue. Una volta in prigione, il personaggio che mi interessava scompare: inizia una zona grigia, lontana dall’oscurità e dalla verticalità del tragico

È per questo che nonostante anche Cantet sia stato ispirato dalla vicenda di Jean-Claude Romand per il suo film A tempo pieno, dello stesso anno, i due film raccontano due cose diverse (potere del cinema). I registi, una volta appreso che stavano lavorando a partire dalla stessa storia, decisero di scambiarsi le sceneggiature per valutare il da farsi, ma si accorsero che i due film erano molto diversi. Cantet racconta di un uomo che ha perso il lavoro e che si vergogna di confessarlo a familiari e amici, iniziando una serie di truffe per mantenere la propria credibilità, ma poi il film si conclude, forse con una possibile svolta positiva, con un colloquio di lavoro.

Mentre quella del personaggio di Cantet è la vergogna sociale di un uomo che ha sempre lavorato, Romand non ha mai lavorato in vita sua. La sua è una vertigine esistenziale, non sociale. Non a caso il film di Nicole Garcia riprende dal libro il titolo L’avversario, che Carrère citava da un riferimento biblico: l’avversario di Romand è il demonio che è dentro di lui, quel demonio che ciascuno più o meno consapevolmente ha dentro di sé. Per rappresentare quest’ambivalenza, quella di un uomo dall’esistenza apparentemente opaca che però dentro di sé porta il demonio, Garcia sceglie forse il più bravo degli attori francesi in attività: “Daniel Auteuil, l’uomo comune dallo sguardo impenetrabile, era perfetto”, dirà la regista.

Ispirò «L'Avversario» di Carrère: il falso medico libero dopo 26 anni -  Corriere.it

Ciò che Carrère aveva saputo svelare di Romand, il film sa trasporlo perfettamente: il protagonista è qui un uomo sofferente, che vive una tragedia. Stando accanto al protagonista infatti non vediamo solo lui. Questa è anche la storia della noncuranza e della cecità degli altri (oltre che la sua), che non hanno mai visto accanto a sé chi quest’uomo fosse e cosa dentro di lui covasse. La moglie del protagonista alla fine ha qualche dubbio, ma le domande che gli fa sono lontane dalla verità, il tempo ha messo troppa distanza tra loro, la bugia è troppo grande, ci vorrebbe una vita per dirle tutto. Un film coraggioso, che come ha detto la autrice racconta “l’intersezione tra il banale e l’inaudito”.

*Segnaliamo qui un articolo di Emmanuel Carrère su A sangue freddo di Truman Capote e di come si sia relazionato ad esso nello scrivere L’avversario.

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