di Marzia Procopio
«Libera l’anima mia dalla spada e il mio amore dal potere del cane».
I fratelli Burbank sono dei ricchi allevatori di bestiame nel Montana del 1925. Quando George (Jesse Plemons) porta a casa una nuova moglie (Kirsten Dunst) e suo figlio (Kodi Smit-McPhee), il carismatico, umbratile Phil (Benedict Cumberbatch), che ispira paura e timore reverenziale in coloro che gli stanno accanto, forse preso dalla gelosia si dà a tormentarli, finché non si sorprende esposto alla possibilità dell’amore: questo il plot di The power of the dog, affascinante adattamento dell’omonimo romanzo di Thomas Savage del 1967 (un’impresa precedentemente considerata nientemeno che da Paul Newman), che arriva dopo 12 anni dall’ultimo film di Jane Campion, Bright Star. Presentato il primo settembre alla Mostra del Cinema di Venezia, dove Campion ha ricevuto il meritatissimo Leone d’Argento per la miglior regia, dopo essere stato pochissimi giorni nelle sale The Power of the Dog è stato rilasciato su Netflix, che lo ha prodotto, il primo dicembre. Pur essendo un film nato per la sala – un grande schermo, il buio totale e la presenza di estranei stretti dal tacito patto che i 126 minuti del film appartengono alla dea Campion, con noi suoi umili fedeli muti davanti allo spettacolo che sempre fa mostra di sé nei suoi lavori – la regista non sacrifica la propria idea di cinema nella collaborazione con il colosso dello streaming, e realizza un film che ancora una volta magnifica l’arte cinematografica: il cast in odore di miracolo, la sorprendente fotografia curata da Ari Wegner e la colonna sonora di Johnny Greenwood, che punteggia i silenzi e le emozioni, qui ancora di più che in Lezioni di piano taciute, inespresse.

Nonostante il suo comportamento rude e scortese (chiama suo fratello “Fatso”, “Grassone”), Phil sembra molto più coinvolto di George nella relazione fraterna. Malinconico e nostalgico del passato, l’uomo intrattiene il gruppo dei loro mandriani con i racconti su Bronco Henry, loro ex mentore, una sorta di eidolon morto da tempo e ormai quasi mitico che viene a guastare il presente come uno spettro di desolazione e repressione; George, invece, riluttante a soffermarsi sul passato come fa Phil, sembra non ricordare quei presunti giorni felici, e manifesta una sottile insoddisfazione per lo stato attuale delle cose. Il discreto, quasi blasé, decoro di Plemons è un perfetto contrasto con l’arrogante spavalderia di Cumberbatch: la tensione nella loro relazione è evidente attraverso la dinamica attentamente costruita tra gli attori e sottolineata dalla colonna sonora di Greenwood. Quando i fratelli portano il loro bestiame in una città vicina, dove loro e i lavoranti soggiornano in una locanda di proprietà della vedova Rose (Kirsten Dunst), che la gestisce con suo figlio adolescente Peter (Kodi Smit-McPhee), George prende in simpatia Rose, e Phil osserva questi sviluppi con sgomento e un atteggiamento via via più molesto nei confronti del figlio di lei, colpevole di aver servito gli allevatori con un panno bianco drappeggiato sul braccio.

Quando George e Rose si sposano, lei e Peter si trasferiscono nella grande casa dei fratelli cowboy, incastonata in un panorama montuoso che ricorda un cane con le fauci spalancate. Peter va al college, mentre Rose lotta per adattarsi non solo alla sua nuova casa, ma anche al suo nuovo destino. Non è a suo agio quando, lei che fino a poco tempo prima serviva a tavola, viene servita dal personale di casa, né quando suo marito si aspetta che si esibisca al pianoforte per il governatore in visita (interpretato da Keith Carradine). Phil, nel frattempo, anche approfittando dei periodi in cui il fratello è fuori per affari, conduce un’astuta guerra psicologica contro Rose, rifiutando a lei e al ragazzo ogni tipo di affetto familiare e incombendo su di lei nell’oscura, estranea casa di campagna. Tale è l’angoscia di Rose, che la donna inizia a bere, sfibrata dal comportamento malevolo. Le cose cambiano quando Peter torna a casa e sperimenta la stessa dissonanza, diventando subito continuo oggetto di disprezzo per Phil e per gli uomini del ranch, che lo apostrofano come “femminuccia” o “deficiente” e lo mettono in difficoltà ridicolizzandolo. Ma il ragazzo reagisce in modo diverso rispetto a sua madre e conquista un vantaggio, nella guerra di posizione in cui Phil lo ha ingaggiato, imbattendosi nel suo nascondiglio segreto nei boschi. La scoperta riguarda le fantasie sessuali di Phil, la sua fissazione feticistica su Bronco Henry: uno sviluppo inferibile ma non per questo meno provocatorio, perché l’elemento psicosessuale flirta sempre, nei film di Campion, con la nebulosità dell’essere umano. Questa visione mette in moto una catena di eventi che hanno indotto i critici a parlare di “western revisionista” e “mascolinità tossica”: qualificazioni senz’altro applicabili a questo lavoro spesso imperscrutabile, ma comunque riduttive per un film che rende omaggio al genere ma vuole essere, piuttosto, uno studio sui personaggi, ciascuno dei quali porta un animale nella propria gabbia. Nonostante tutto il suo machismo, Phil in realtà ha più cose in comune con Peter di quanto non dia a vedere; Peter invece, che preferisce il rigore dello studio alle fatiche del lavoro manuale, si dimostra lucido, pianificatore, chirurgico nella messa a punto dell’insospettabile piano che scioglierà, nel finale, i legami perversi. Entrambi possono o meno condividere l’orientamento sessuale (comunque mai apertamente dichiarato dalla regista, alla quale esso interessa solo come punto di debolezza di Phil), che all’epoca e in quel luogo era decisamente tabù.

I protagonisti sono legati da sentimenti ambivalenti, che non sanno o non vogliono esplicitare, le vite segnate da dolori e perdite, ma i conflitti fra loro e in loro non si estroflettono mai, piuttosto li consumano e si consumano al loro interno. A dirci le paure, i sospetti, le emozioni violente, sono le maschere, ché chiamarli volti è riduttivo, degli attori: nei panni di Rose, Dunst mostra la sottile vulnerabilità dispiegata dal suo superbo talento, ancora sotto-impiegato dall’industria cinematografica. L’attenzione del film è apparentemente sui suoi personaggi maschili, ma, come nei film di Campion, la figura femminile centrale emerge come una figura altrettanto complicata, se non di più. Allo stesso modo, il giovane Pete di Smit-McPhee bilancia le posizioni contrastanti, oscillando con grazia tra il timido, il disadattato e il funesto protettore della sanità mentale della madre. La sua insolita bellezza completa questo obiettivo, sebbene non superi mai la delicata sfumatura femminea del personaggio; lo sguardo finale in macchina, con la rivelazione definitiva del suo vero carattere, gli varrà in futuro dei riconoscimenti per la sua versatilità. Alto, allampanato e goffo, Peter è chiaramente preso di mira per caratteristiche che suggeriscono sensibilità, debolezza e (sebbene mai esplicitamente articolata) una femminilità che suggerisce che sia omosessuale. L’interpretazione di Kodi Smit-McPhee è una sorta di rendering campionesco, capace com’è di incarnare l’idea di queerness non per quanto riguarda l’orientamento sessuale del personaggio, ma per la sua postura di persona intrinsecamente messa da parte, intrinsecamente in contrasto con il mondo che lo circonda. Peter è una figura che si aggiunge a un pantheon di personaggi divergenti, inclusa la Sweetie del film d’esordio di Campion (1989), passando per la Ada di Holly Hunter in Lezioni di piano (1993) e la Frannie di Meg Ryan del sottovalutato In the Cut (2003): figure che sembrano essere enigmatiche per Campion quanto lo sono per noi.

Nei panni di Rose, Dunst mostra la sottile vulnerabilità che spiega il suo superbo talento ancora sotto-impiegato. L’attenzione del film è apparentemente sui suoi personaggi maschili, ma, come nei film di Campion, la figura femminile centrale emerge come una figura altrettanto complicata, se non di più. Allo stesso modo, Smit-McPhee bilancia le posizioni contrastanti, oscillando con grazia tra il timido, il disadattato e il funesto protettore della sanità mentale dell’unica figura genitoriale rimastagli dopo il misterioso suicidio del padre. La performance di Cumberbatch è di altissima qualità, ma qui gli tengono perfettamente testa gli altri tre protagonisti, compreso Plemons, che merita una menzione a parte, perfetto com’è a scomparire nel ruolo secondo necessità; la sua chimica sullo schermo con la partner nella vita reale Dunst è un’ulteriore aggiunta. Aderendo alle note richieste che Campion fa ai suoi attori in materia di metodo di recitazione, Cumberbatch ha trascorso molto tempo nell’ovest americano e ha persino imparato a castrare un toro, dando credibilità alla scena più raccapricciante (ma per fortuna simulata) del film. A volte è troppo, ma forse è intenzionale: il personaggio richiede di distinguersi dagli altri per sottolineare le differenze fra loro e accrescere la sua stranezza. Si ha l’impressione che Cumberbatch, uno degli attori più grandi della sua generazione, interpreti Phil consapevole di ciò che Phil (e forse Campion stessa) ignora invece di se stesso: che ci sono altri che sanno, o almeno sospettano, chi è veramente.

Il titolo del film allude a una forma impercettibile nelle scoscese colline del Montana, un misterioso profilo reso più inaccessibile dal terreno pericoloso. L’uso dell’ambientazione da parte di Campion qui è evocativo dei grandi maestri del western, John Ford e Anthony Mann. Gli scatti di Phil e Peter in un fienile, in controluce contro il cielo azzurro e le montagne verde chiaro, ricordano un famoso scatto di The Searchers di Ford, mentre l’uso del paesaggio come prepotenza psicologica evoca non solo i paesaggi neozelandesi di Lezioni di piano, ma i migliori western di Anthony Mann (The Furies, Bend of the river, The far country); la brezza che accarezza dolcemente le spighe di grano nei campi facendole ondeggiare, il vento che si insinua nella criniera dei mansueti cavalli del ranch, sono invece un “sigillo” campioniano, la firma della cineasta: maestosi quadri en plein air che ricordano i campi di Bright star, lì illuminati dalla luce fredda della campagna inglese, qui dai colori tenui e caldi della prateria. La colonna sonora del film è complementare al suo tema, e la pungente replica di Greenwood suggerisce una presenza da voyeur.

Come nella tragedia classica, i due momenti di svolta della storia – il matrimonio fra George e Rose e la morte di uno dei protagonisti – avvengono fuori scena. Il silenzio della sceneggiatura prosegue quello dei personaggi, cui fanno eccezione due inspiegati sfoghi del rude Phil Burbank, che con le lacrime agli occhi urla la sua rabbia contro Rose, colpevole di aver regalato le pelli essiccate degli animali. Nei silenzi dei protagonisti e delle ragioni che li agitano, nella struggente bellezza dell’abbraccio liberatorio di Rose con il marito, còlto dallo sguardo enigmatico di Peter, Campion si rintana ancora una volta in quella crepa oscura aperta tra malvagità e bellezza, oscurità e luce. Gli interni misteriosi dei suoi personaggi finemente disegnati si fondono elegantemente con le idiosincrasie della sua visione estetica, ma spesso con un effetto inquietante. Da questo deriva un’altra sublime ode alle complessità dell’umanità, sempre capace di sorprendere, fino all’ultimo fotogramma, un altro capolavoro della grandissima regista pluripremiata. Imperdibile.
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