Truman Capote – A sangue freddo (Capote), di Bennett Miller (2005)

di Bruno Ciccaglione

“L’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma non lo si veda mai”
Gustave Flaubert

Nel mettere in scena il processo creativo di un artista che sta realizzando il suo capolavoro, Capote realizza una sorta di “backstage” del romanzo A sangue freddo, che aprirà il filone del “romanzo-documentario” (nonfiction-novel), che ancora oggi, con forme le più diverse, impegna molti scrittori contemporanei. Paradossalmente però, al centro del film sta proprio tutto ciò che Truman Capote aveva consapevolmente tenuto fuori dal romanzo: se stesso, con il suo coinvolgimento personale, umano, emotivo.

L’idea del film viene da Dan Futterman, attore, sceneggiatore e produttore, nonché compagno di scuola e amico del regista Bennett Miller dai tempi del liceo. I due presto coinvolgeranno nel progetto, per interpretare Truman Capote, un altro loro amico di gioventù, l’attore Philip Seymour Hoffman, che vincerà grazie a questo film il suo Oscar come miglior attore protagonista. Il legame fra i tre amici e la sintonia con cui concepiscono ciascuno il proprio ruolo nella realizzazione del film, consentono di evitare le molte insidie che il progetto inevitabilmente riservava loro.

La fattoria del Kansas in cui si svolge la strage su cui Capote decide di scrivere, in un fotogramma del film

Futterman scrive una sceneggiatura che evita programmaticamente la trasposizione dell’opera letteraria in film (peraltro un film basato sul libro era stato realizzato già da Richard Brooks nel 1967), per concentrarsi invece sui sei anni trascorsi in Kansas da Capote, dedicati alle ricerche sul crimine efferato che ha sconvolto un piccolo villaggio della campagna di quello stato, da due balordi che una volta arrestati confesseranno di essere gli assassini di 4 membri di una famiglia benestante di allevatori, la coppia di genitori e i due figli adolescenti, uccisi con modalità insolite e brutali.

I due veri protagonisti del caso, Richard Hickcock e Perry Smith, fotografati da un fotografo del New Yorker per quello che doveva essere il reportage di Capote

Se a Capote interessava l’impatto di un crimine così violento su una comunità che sembrava una cartolina illustrata del vecchio West incontaminato, la rottura violenta di una armonia che si rivelava illusoria, Futterman e Miller si interessano soprattutto al processo creativo che porterà Capote al suo capolavoro, ma che probabilmente lo segnerà per sempre, restando questa l’ultima opera che sia riuscito a completare prima di perdersi negli eccessi dell’alcol e dell’autodistruzione.

Come ha sottolineato uno degli scrittori più importanti dei nostri giorni, Emanuele Carrère*, che aveva letto e riletto A sangue freddo per preparare il suo L’avversario (qui la recensione del film che ne è stato tratto) dal momento in cui Capote comincia a fare visita in prigione ai due responsabili della strage “la storia raccontata in ‘A sangue freddo’ e la storia di ‘A sangue freddo’ cominciano a divergere in modo stupefacente e si crea una delle situazioni letterarie più perverse che io conosca”. Capote, partito con l’idea di realizzare sì un romanzo, ma che racconti fedelmente una vicenda realmente accaduta, vorrebbe attenersi ai precetti indicati da Flaubert e per questo sceglie la terza persona, una narrazione distaccata in cui la propria partecipazione agli eventi è accuratamente nascosta al lettore. Eppure egli risulta indubbiamente uno dei protagonisti della vicenda: sarà lui a pagare gli avvocati che consentiranno i primi rinvii delle esecuzioni della pena capitale, sarà lui la persona oggettivamente più importante nella vita dei due detenuti per i 5 anni che precederanno l’esecuzione della loro condanna a morte, sarà lui a stabilire un rapporto di particolare intimità con loro e con uno di loro addirittura forse una vera e propria relazione amorosa.

Questo perverso rapporto tra ciò che il Capote-scrittore fa in nome del valore supremo della propria arte, pur di ottenere ciò che gli serve per realizzare il suo capolavoro, e ciò che il Capote-uomo e protagonista della vicenda vive, capace com’è di riconoscere l’umanità di quei criminali fino a esserne emotivamente e sentimentalmente coinvolto in pieno, è al centro del film. Lo scrittore mente senza ritegno per carpirne la fiducia, eppure l’uomo arriva forse ad amare profondamente Perry Smith. A un certo punto Capote si augura che i due assassini siano giustiziati (sarebbe il finale migliore per il suo libro!) e possibilmente al più presto (non ne può più di stare in Kansas e vuole finire il libro), eppure è evidente la dissociazione tra quel che egli è quando si trova nelle celle del braccio della morte con Perry e Richard e quel che egli è quando sfoggia il suo humor e la sua ironia queer nei salotti mondani di New York.

Nelle scene in ambiente mondano l’attore Philip Seymour Hoffan avrà ampi margini di improvvisazione

Questa ambiguità e questa dissociazione, con tutta la tensione che esse producono nell’animo di Capote, sono un punto focale della regia di Miller, che dirige e monta lavorando molto su quel che non si dice o non si vede esplicitamente, giocando con quello a cui si allude e che si intuisce. Se si vede l’altro film basato, un po’ incredibilmente, esattamente sulla stessa idea e uscito un anno più tardi (Infamous – Una pessima reputazione di Douglas McGrath), si assiste ad un approccio in cui tutto e molto più direttamente mostrato e raccontato, ma al prezzo di una molta minore suggestione emotiva per lo spettatore.

Non casualmente Truman CapoteA sangue freddo è un film di primi piani, in cui Miller richiederà agli attori una recitazione molto fisica della maschera facciale. Anche il lavoro con Philip Seymour Hoffman è stato esplicitamente impostato su due registri diversi, a giocare sulla dinamica dentro e fuori dal carcere: nelle scene realizzate in carcere l’attore ha raccontato di essere stato quasi tenuto all’oscuro di ciò che sarebbe avvenuto, delle lunghe pause che seguivano le battute di ogni scena prima dello stop, del peso che Miller voleva dare ai silenzi e agli sguardi; nelle scene delle serate mondane e delle feste, invece, Miller lasciava all’attore ampi margini di improvvisazione, affinché desse libero sfogo alla sua creatività, alla sua voglia di leggerezza.

Il lavoro di Hoffman gli varrà un meritatissimo Oscar. L’attore aveva avuto dei dubbi, all’inizio, soprattutto perché di corporatura corpulenta e di statura medio alta, mentre notoriamente Capote era piccolo e magro. Hoffman non credeva al metodo dell’Actors Studio, non intendeva il lavoro dell’attore allo stesso modo di un De Niro. Eppure la preparazione (oltre a una dieta severissima), gli impose alcuni mesi di lavoro. Anche qui, il rischio di una macchietta era forte, ma d’altra parte chiunque abbia mai visto o ascoltato Capote (numerosi i materiali online disponibili e a cui Hoffman aveva attinto) sa bene che sarebbe stato impossibile usare la voce senza connotarla in modo molto forte o senza assumere alcuni dei tratti più tipici della sua fisicità. Alla fine Hoffman riesce benissimo a percorrere la china sottile che aveva di fronte e la sua interpretazione resterà memorabile (il film andrebbe gustato in originale, ma si deve ammettere che il doppiatore italiano, Roberto Chevalier Di Miceli, ha fatto un lavoro eccellente).

La lotta con se stesso in nome dell’arte, una vita in un certo senso sacrificata per realizzare la sua opera più significativa, la sfida di inventare un modo nuovo di scrivere un romanzo, fare tutto a dispetto della empatia e perfino dei sentimenti che inevitabilmente nascono verso i due condannati a morte, mentire forse anche a se stesso: è uno sforzo immane, con cui Capote si consuma. Alla fine assisterà alla impiccagione dei due criminali e sarà l’ultima persona che i due hanno abbracciato prima di salire sul patibolo. Ma come chiariva in un altro scritto Flaubert, l’artista che voglia dipingere “il vino, l’amore, le donne” può farlo solo se non è “né ubriacone, né amante, né marito, né fante. Mischiati alla vita, la si vede male, se ne soffre o se ne gioisce troppo”. Capote ha vinto la sfida di vedere e raccontare “bene” quella vita, ma forse al prezzo di una sofferenza che gli è rimasta dentro per sempre.

* L’articolo di Manuel Carrère su Truman Capote e la realizzazione di A Sangue Freddo sono disponibili in una traduzione in italiano sul sito di Repubblica https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/09/30/truman-capote.html

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