di Roberta Lamonica

Premessa
Già vincitore di due Oscar per il miglior film internazionale con Una separazione e Il Cliente, il regista iraniano Asghar Farhadi è ora al cinema con Un eroe, vincitore del gran premio della giuria a Cannes 2021. Un cinema neorealista, quello di Asghar Farhadi, cinema morale, perché il conflitto tra giusto e sbagliato, tra bene individuale e bene collettivo, tra apparenze e realtà è alla base delle motivazioni che spingono l’agire di molti dei suoi protagonisti. E l’ombra dell’ambiguità scende cupa anche sul protagonista di questo film, un uomo ‘troppo buono per essere vero’. Un uomo il cui eroismo è dato dalla relativamente serena accettazione delle ambasce della vita, dei suoi imprevisti; l’ eroismo che celebra un evento in una vita che diventa exemplum proprio in virtù della sua imperfezione e anormalità.

Trama di Un eroe
Rahim (Amir Jadidi), un pittore e calligrafo iraniano è in carcere per debiti contratti con l’ex cognato. Durante un permesso di due giorni, Rahim prova a saldare il debito vendendo delle monete d’oro che la sua fidanzata ha trovato per strada in una borsa. Al momento della vendita delle monete però, l’uomo viene colto da uno scrupolo di coscienza e sceglie di rintracciare la proprietaria della borsa. La notizia del suo nobile gesto rimbalza su giornali, tv e social media e Rahim diventa per tutti un eroe dei nostri tempi, fulgido esempio di rettitudine e integrità morale. Ma poiché la realtà non ha mai una sola lettura e un solo punto di vista, le cose per lui si complicano e prendono una piega inaspettata.

Il neorealismo di Farhadi
Quando Farhadi parla della gente comune e della vita di quella gente nella sua terra, dei cambiamenti in atto e di radici saldissime, ha una forza espressiva e narrativa vicina a quella dei grandi registi del Neorealismo italiano che, fra l’altro, lo stesso regista ha dichiarato di considerare sua principale fonte di ispirazione e che in questo film trova in Ladri di biciclette una citazione diretta. Che la storia di Rahim non sarà tutta in discesa si evince già dalle primissime scene, quando il nostro protagonista, immerso nel sole sullo sfondo di una città in fermento, sale rampe e rampe di scale per raggiungere suo cognato, al lavoro presso un sito archeologico. Rampe che indicano la molteplicità dei piani della storia e dei punti di vista. Rampe che determinano il cambio di rotta nella vita di persone comuni alle prese con problemi comuni. E in effetti la vita di Rahim e della sua famiglia scorre con una normalità anche venata di ottimismo e speranza per la prima parte del film, nella semplicità di piccoli gesti quotidiani, tra momenti conviviali, grosso senso della comunità e continuità con la tradizione.

Una società umorale e chiaroscurale
Rahim è un uomo buono, amato dalla famiglia della sorella con cui lui e suo figlio vivono. La sorte gli è avversa, nonostante il sorriso sincero e lo sforzo continuo di mediare e far la cosa giusta. Mentre l’amore incrollabile della sua donna e quello limpido e implorante di suo figlio lo sostengono nei momenti più bui, il resto dei personaggi del film avviluppa Rahim in una spirale vorticosa di celebrazione e disprezzo che dà le vertigini. Centrale la figura della donna nel film, agente principale delle sorti del proprio uomo, centro nevralgico della famiglia. Oltre alla già citata Farkhondeh, poetica è la figura della moglie del condannato a morte, che incrocia il destino di Rahim; e ancora la tenace e determinata presidente dell’associazione benefica. Donne moderne sempre in bilico tra anelito alla contemporaneità e all’auto determinazione e tradizioni millenarie.
Se i bambini del film raccontano cose in modo spontaneo, oppure guardano senza parlare o ancora balbettano per esprimere la difficoltà a decifrare la realtà che li circonda, testimoni dei sentimenti lasciati sullo sfondo dell’inquadratura dalla macchina da presa e pronti ad essere coinvolti se necessario alla ‘causa’, gli altri personaggi sono ossessionati dall’opinione pubblica, dal salvare le apparenze, siano essi mossi da affetto o da vecchi rancori, schiavi di quel ‘Cosa dirà la gente?’ che muove la vita di tutti loro.

Quasi un idiota dostojeskiano, Rahim cerca di far bene in una società mossa da nuove istanze occidentali legate alla popolarità, al successo mediatico, al riconoscimento pubblico o – più tradizionalmente- come nel caso di Braham, dal freddo e lucido desiderio di vendetta per un torto subito; sarà forse per questo che, nonostante sia il nemico acclarato di Rahim, lo troviamo meno ipocrita di altri. In cambio del suo gesto ‘eroico’ (civile, come sottolinea Braham), Rahim vorrebbe solo riavere la libertà, un lavoro e la possibilità di vivere alla luce del sole l’amore per la bella e moderna Farkhondeh (Sahara Goldoost).

Ma l’eroismo si nutre di rappresentazione, sembra suggerire Farhadi. E quindi i veri atti di eroismo che Rahim compie – la ricerca della proprietaria della borsa, la cessione della colletta fatta a suo favore a una donna il cui marito rischia la pena capitale, la protezione della dignità del figlio che gli costerà ogni altra possibilità di sconto di pena – non fugano i dubbi e i sospetti sulla reale natura di un uomo che semplicemente sfugge alle logiche opportunistiche e autocelebrative di cui anche la società iraniana sembra essere preda.

Conclusioni
In una storia stratificata, la cui ambiguità di fondo è ravvisabile nel gioco di sguardi a distanza, di vetri che riflettono, di aperture che lasciano dentro e fuori al tempo stesso, la prigione, habitat per eccellenza per ritrovare un anonimato confortante, sarà per Rahim un luogo quasi sacro, in cui liberarsi dagli affanni della notorietà, in cui uscire dall’ambiguità, in un riscatto indiscutibile. La bellissima inquadratura finale, in cui il ‘fuori’ brulicante di vita e di speranze ritrovate, si alterna a un ‘dentro’ silenzioso e apparentemente disperato, trova sul volto vagamente alienato di Rahim la serenità di chi vede la realtà da una prospettiva di candore che agli altri non è dato comprendere e con cui lui, forse, non ha più interesse spiegarsi.
