Voyage of Time, Terrence Malick, 2016

di Francesco Gatti

“Madre. Hai camminato con me. Nel silenzio. Prima che ci fosse un mondo. Prima della notte o del giorno. Da sola nella quiete. Quando regnava il nulla”.

Locandina

L’altra faccia di Tree of Life, uscita nelle sale con sei anni di ritardo, ci appassiona e commuove, e ci dice tanto, perché nelle pause e nei silenzi c’è molto di più di quanto spesso si possa avere nei film “tradizionali”. Prodotta in collaborazione con National Geographic, quest’opera di Terrence Malick è un documentario vero e proprio, che incolla alla sedia e lascia lo spettatore con più di una domanda.

Se Tree of Life era stata la preghiera di inizio millennio, se era stata una pietra miliare nella storia del cinema, riuscendo a fondere scienza e fede, Voyage of Time, comparso all’improvviso nelle sale italiane in questo primo scorcio di 2022 dopo sei anni, è il suggello, artistico, didattico e scientifico all’opera di Malick. Voyage of Time non è solo un documentario, ma un’opera narrativa semplice nella sua complessità, in cui le ellissi del racconto sono perfettamente completate dalle immagini e dai pochi passaggi parlati.

Come in Tree of Life assistiamo, su due piani, alla nascita di ciò che conosciamo, all’alba della notte dei tempi, e alla sua evoluzione, e alle immagini del quotidiano dolore, il dolore degli umani del XXI secolo, relitti, abbandonati, nella rabbia, nell’adorazione degli dèi, nei riti, nella solitudine: il bambino in Africa, il vecchio in Asia, l’uomo in America e la donna in Europa. 

Cate Blanchett dà la voce alla narratrice (la parte di Brad Pitt, come spesso accade nei film di Malick, è stata tagliata senza preavviso alcuno), che si esprime non più di sei-sette volte nell’ora e mezzo di pellicola, mediante una serie di implorazioni, invocazioni e domande retoriche, come e più che in Tree of Life, rivolte al Creatore (o alla Creatrice, Madre, nelle ripetute evocazioni, la stessa madre cui si rivolgeva Pocahontas-Rebecca in The New World), tali da creare aspettative che vengono ripagate dalla perfetta fusione tra le immagini e le musiche del film: e così si passa dal big-bang, alla nascita dei primi organismi monocellulari, complessi, ad esseri vertebrati, fino ai primi umani. Anche stavolta il film è stato girato in gran parte in Islanda, o meglio, gran parte del girato è frutto della complessa, ed enorme, raccolta di materiale effettuata ai tempi di Tree of Life; memorabili le scene delle eruzioni sottomarine; anche stavolta abbiamo a che fare con i dinosauri, e con la loro estinzione per via della caduta della meteorite di Chicxulub (sì, c’è anche la meteorite); ma stavolta la favola dell’uomo finisce tra i grattacieli opulenti del Texas e del Medio Oriente e la perdita dell’innocenza nei primi umani, che scoprono la rabbia, la cattiveria, e l’omicidio.

Senza dover nuovamente giungere a far paragoni con “2001 Odissea nello spazio” (anche se la similitudine appare evidente come e più che in Tree of Life; del resto Robert Trumbull, scomparso da poco, ha curato gli effetti speciali dei tre film) e la relativa scena dell’alba dell’uomo ai piedi del monolite, il film si chiude con la perdita dell’innocenza, stavolta non del singolo personaggio, elemento portante in molti dei film del regista texano, ma dell’intero genere umano, mediante il primo crimine della storia, commesso da uno degli ominidi, fatto efferato che si unisce idealmente con la sofferenza e la cattiveria cui abbiamo assistito all’esordio della proiezione.

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