di Andrea Lilli –

È arrivato il 31 marzo nelle sale italiane Lamb, vincitore a Cannes 2021 del premio per l’originalità nella sezione Un certain regard: riconoscimento meritato, essendo un film che inventa un mammifero inedito, metà uomo e metà pecora, un nuovo ibrido mitico da aggiungere al catalogo zoologico fantastico in cui troviamo i minotauri, i centauri, le arpie, i licantropi, le sirene, le sfingi e tutte le altre meravigliose creature fifty-fifty partorite dalla fantasia della specie più nociva alla biodiversità del pianeta.
Ma Lamb (che non è affatto un horror), oltre ad inventare una nuova chimera, ha saputo trattarla con sensibilità e prudenza, il che è un merito ancora più apprezzabile. Un rispetto profondo, quello del regista Jóhannsson per i protagonisti del suo sogno, che attraversa l’intero film e si trasmette a noi spettatori, grati di non essere mai costretti a chiudere gli occhi per evitare di assistere a scene raccapriccianti, come di solito avviene per storie del genere, nemmeno quando deve scorrere il sangue.

Nelle nebbiose campagne islandesi la sera di Natale fa un certo freddo gelido quando il vento è forte e carico di neve, eppure non tutti restano chiusi in casa. C’è chi si aggira intorno alla fattoria di María e Ingvar, una giovane coppia di contadini, mettendo in agitazione i cavalli e le pecore. Impossibile che sia un vicino o un turista: i due vivono isolati in una valle lontana da strade trafficate. Non si può escludere l’ipotesi Babbo Natale, perché i due coniugi troveranno un regalo in primavera, cioè in tempi tecnicamente compatibili con la visita: un agnello speciale, generato da una pecora normalissima ma molto diverso dagli altri. Di ovino ha solo la testa e una zampa, il resto del corpo è quello di un cucciolo umano: una baby-pecora, rosa di pelle e bianca di vello, che loro chiamano Ada. Lo stesso nome della loro unica figlia, morta bambina anni prima.
È un dono del cielo, dicono María e Ingvar, divenuti genitori adottivi senza chiedersi troppi perché davanti ad un miracolo comunque inspiegabile. Un rimborso tardivo, evidentemente, un ravvedimento operoso del buon Dio a compensazione del dolore inflitto in precedenza.
È mia figlia e la rivoglio, grida la pecora che ha partorito Ada, belando legittimi lamenti senza tregua, ogni giorno.

María porta il nome della madre di Gesù, agnello di Dio destinato a sacrificarsi per il bene dell’umanità, ma non ha la stessa rassegnazione: si oppone alle pretese della madre naturale, e si tiene ben stretta la piccola. L’allatta col biberon, la lava nella vasca da bagno, la copre con vestiti cuciti su misura, l’addormenta in culla, col passar del tempo la fa sedere a tavola. Insomma, lei e Ingvar trattano Ada come una figlia bipede in tutto e per tutto; così la loro vita, il loro rapporto ritrova un senso, nuovo vigore. Al prezzo, però, di una grave forzatura sulla natura. Infatti la violenza di noi ‘umani’ sugli altri animali viene esercitata non solo allevandoli in modo coercitivo (ad uso alimentare, per farli lavorare, per altre funzioni), o nell’eliminarli quando ormai inutili e fastidiosi, ma anche quando li trasformiamo in obiettivi affettuosi, quando li usiamo come sostituti di figli, amici o perfino amanti, portandoli a vivere in un modo simile al nostro, che per loro è completamente innaturale.
L’equilibrio malato della situazione non verrà incrinato nemmeno dalle critiche di Pétur, il fratello inquieto di Ingvar, che scappando da rovesci personali viene a rifugiarsi nel microcosmo patologico di questa casa fuori dal mondo. Pétur fatica molto ad accettare il ruolo di zio di un agnello che si chiama Ada, ma poi sta al gioco anche per avvicinarsi meglio a María, da cui è attratto irresistibilmente. Tanto da costringere la donna, dopo l’ennesimo tentativo di seduzione, ad accompagnare il cognato verso la fermata d’autobus più vicina, con tanti saluti.
[No spoiler] Come proseguirà la vita dei tre? Fin dove si spingerà l’educazione/manipolazione di Ada? Lamb è un thriller avvolto in una nebbia psicologica che nasconde ai coniugi gli ostacoli naturali ai loro desideri, alle loro pretese, così come quella atmosferica si oppone alla luce del sole e impedisce di vedere i contorni delle vicine montagne. La storia viene spesso tradotta in quadro, in immagine quasi pittorica, da osservare più che da veder recitare. Le riprese indugiano spesso nelle prospettive profonde dei campi lunghi e nella fredda luce di un paesaggio senza alberi dove le figure si stagliano nette oppure opache come fantasmi, a seconda della nebbia, qui padrona dispotica dei colori.
In questo ambiente favorevole al racconto onirico e mitologico l’esordiente Valdimar Jóhannsson si destreggia bene con gli effetti speciali e nella fotografia, sa come creare visioni dense di suspence nel silenzio soffice e teso di una sceneggiatura fatta di dialoghi scarni – si usano poche parole, solo quelle essenziali (co-sceneggiatore è Sjón, scrittore islandese autore di testi per numerose canzoni di Björk). Il resto è linguaggio non verbale: gli animali sono eloquenti, e Noomi Rapace ha occhi che parlano.
L’attrice svedese (cresciuta in Islanda), protagonista di Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017), nel filone Alien di Ridley Scott, conferma la solida dimestichezza con gli esseri fantastici di qualunque genesi e mutazione.
Il commento musicale nei titoli di coda si affida alla celebre Sarabanda della Suite n. 4 in re minore di Händel, cui ricorse Kubrik per drammatizzare il suo film più pittorico, Barry Lyndon (1975). Produzione islandese, svedese e polacca, Lamb è distribuito in Italia da Wanted Cinema.
- In sala dal 31 marzo

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