Jazz Band, di Pupi Avati (Miniserie Tv, Italia/1978)

di Girolamo Di Noto

“Furono questi, giorni felici. Soffiavano dentro i loro tubi solo il loro entusiasmo”

Capita di rado di assistere a film pensati per la televisione che accolgano nel proprio messaggio poetico, con tanta sintesi, le atmosfere di un’epoca attraversandola, omaggiandola con tenerezza, carezzandola con delicatezza. Jazz Band di Pupi Avati è stato tutto questo: andata in onda in 3 puntate, dal 30 aprile al 14 maggio 1978, riproposta su Raiplay per omaggiare l’attore Lino Capolicchio, recentemente scomparso, l’opera di Avati è un intenso affresco autobiografico in cui il regista bolognese si racconta di quando, da giovane clarinettista, cercava di affermarsi nella scena musicale della Bologna degli anni Cinquanta.

Sorretto dalla passione di raccontare storie sospese tra realtà e favola, nel solco della migliore tradizione emiliano-romagnola, Avati dà vita ad una rievocazione tenera, affettuosa di quegli anni, perduti e rivisti con indulgenza ironica. Jazz Band è la storia di Giuseppe (Lino Capolicchio), un giovane studente, orfano di padre che vive con la madre e il nonno, che ha una passione per il jazz, al punto da fondare una piccola orchestrina con alcuni amici.

Il concerto a Bologna di Kid Ory, vera leggenda vivente dei tempi d’oro di New Orleans, è la molla che li spinge a fare sul serio con i propri progetti musicali. Nasce così la Criminal Jazz Band, formata inizialmente da Giuseppe al clarinetto, Vittorio al pianoforte, Giancarlo al banjo e Luigi alla tromba e poi allargata ad altri tre elementi, tra cui il bizzarro Carlo (Carlo Delle Piane) alla batteria e Giuliano (Gianni Cavina) al trombone.

Jazz Band è un racconto di formazione faticoso e spensierato, caratterizzato da insuccessi e inaspettati trionfi, in cui ad emergere è soprattutto la tensione tra un mondo sfavillante, lontano, irraggiungibile, che è l’America, fucina di ideali e miti per tutte le generazioni e quello provinciale e periferico di Bologna, luogo degli affetti, ameno, che, nel cuore dei ragazzi, dovrebbe costituire il trampolino di lancio per il successo.

Avati riesce a catturare i sogni e le delusioni di questi ragazzi manifestando l’ardore e l’ingenuità dei loro vent’anni, lo smacco del fallimento, il desiderio di essere amati e lo fa raccontando con candore e semplicità le storie di questi personaggi regalandoci in ogni puntata emozioni, sentimenti veri e guizzi surreali, passando dalla risata sincera all’amarezza, fino allo struggimento malinconico.

La musica è la vera protagonista della miniserie: è la scintilla vitale che muove tutto. Attraverso di essa i personaggi ritrovano la propria essenza, dimenticano le proprie delusioni amorose, esternano stati d’animo, si lasciano trasportare vagheggiando il mito di locali fumosi, belle ragazze. Le vicende musicali accompagnano i primi turbamenti amorosi, il dolore per la morte di un caro amico, gli scontri tra opposti schieramenti politici, l’invasione della Russia sull’Ungheria, il matrimonio di Marylin Monroe con Arthur Miller.

La colonna sonora curata da Amedeo Tommasi, la canzone Diana di Paul Anka ascoltata al jukebox mentre giocano al calcio balilla e soprattutto la sigla di apertura Jazz Band di Henghel Gualdi, diventata poi celeberrima sigla di chiusura di 90esimo minuto, diventano veicolo privilegiato per far affiorare i ricordi, risolvere situazioni, allentare tensioni.

Avati è straordinario nel far percepire come il jazz sia cuore, arteria che pulsa, sangue, colonna vertebrale. Giuseppe, Giancarlo, Vittorio e gli altri sono ragazzi che non hanno altra realtà in cui rifugiarsi che quella di un jazz all’italiana con l’occhio rivolto ai grandi numi d’oltreoceano. Li vediamo suonare sempre e ovunque: sotto i portici, al secondo piano di via San Vitale, eseguendo improvvisazioni in sale vuote per soli camerieri, nell’attesa delle ragazze che non arrivano. Suonano per la voglia di essere trasgressivi, perché uniti da una grande amicizia e perché nutrono sempre un’illimitata fiducia nella possibilità che i miracoli possano accadere sempre.

La musica è il magico che entra nella vita, che infrange la realtà schiacciante, trasportando i personaggi in una dimensione altra. L’atmosfera è quella della fiaba che tutto rende possibile. La componente favolistica affiora ad esempio nella scena dell’acquisto della batteria: per comprarla i ragazzi devono pulire migliaia di siringhe da una strana vecchietta, devono affrontare una strana famiglia di pazzi.

I pazzi, nel film, sono pazzi mantenendo una loro tragica allegria in fondo al cuore, sono strambi personaggi che pensano di aver avuto lettere scritte al contrario, ostinati come il nonno di Giuseppe che passa di fidanzata in fidanzata a far vedere il loculo dove spera di essere sepolto. Lo stesso Carlo, batterista stralunato, appassionato di ritmi e percussioni, è segnato da una bizzarra nascita anticipata dalla troppa voglia di fare l’amore dei suoi genitori, eccitati dai frutti afrodisiaci del melograno.

Lino Capolicchio e Carlo Delle Piane

Già emerge la cifra stilistica dell’Avati che conosceremo meglio nei suoi lavori a venire: storie sospese tra realtà e fantasia, tra aspirazione e sogno, in cui confluiscono nonsense, storie quotidiane, elementi fantastici, propri di un cinema considerato dallo stesso regista “quell’imbuto attraverso il quale le cose vere diventano bugie”.

Cantastorie per immagini, innamorato di Bologna e sorretto da una leggerezza adolescenziale, Avati dà vita ad un cinema familiare e il compianto Lino Capolicchio resterà per sempre un attore “di famiglia” per il regista bolognese. Alter ego dello stesso Avati che lo dirige nell’apprendimento del clarinetto, volto avatiano per eccellenza, presente in ben nove film del regista, Capolicchio, con quell’aria estatica e sognante, con quel suo modo di essere garbato, scherzoso e malinconico allo stesso tempo, ha incarnato meglio di ogni altro quel clima di favola sognante presente nel film e lo ha fatto attraverso uno sguardo tenero e stupito.

“Tu stai impersonando me, però lo fai in una maniera, con una sensibilità che mi commuove”, dirà Avati all’attore. Da antologia la scena in cui – quando mangia le fettuccine – Giuseppe si rende conto che la ragazza – invitata a pranzo perché gli piace – lo sta guardando e si sta innamorando di lui. Capolicchio è stato in grado di esprimere con il suo sorriso timidamente accennato sfumature espressive diverse e con i suoi occhi limpidi, raffinato nell’aspetto come Tadzio di Morte a Venezia, ben rappresenterà il cinema struggente, nostalgico, musicale di Avati.

Accanto a lui, oltre a Carlo Delle Piane, non va dimenticato un altro grande attore che ci ha lasciato da poco, Gianni Cavina. Con la sua voce pastosa e il sorriso ammiccante, ha dato vita ad un personaggio esperto seppur spiantato, coerente con i suoi ideali, amico fidato.

Allergico alle mode, lontano dal cinema di genere e dall’autorialità troppo seriosa, Avati è riuscito a trasformare in immagini un mondo di ricordi facendo confluire storie semplici e soprattutto il piacere dello stupore, il gusto di raccontare aneddoti mettendo bene in atto il monito che il nonno dirà a Giuseppe nell’inquadratura finale: “Guarda bene e cerca di ricordare tutto. Quando sarai vecchio avrai solo questo da fare”. Cinema come recupero della memoria, arte che ricostruisce atmosfere: Bologna, jazz, fuoco e tenerezza.

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