Quella villa accanto al cimitero (1981) di Lucio Fulci

di Fabrizio Spurio

“Nessuno saprà mai se i bambini sono mostri o i mostri bambini” (Henry James)

La frase che chiude il film, attribuita a Henry James, autore del capolavoro “Giro di vite”, porta alla luce uno dei punti focali della poetica di Lucio Fulci.

Il centro della vicenda è villa Freudstein, costruita accanto al cimitero ai margini di New Whitby, immaginaria cittadina del New England. Il film inizia già portando lo spettatore nel centro dell’orrore, con un duplice delitto perpetrato all’interno della villa. Due ragazzi, appartatisi nella casa per amoreggiare vengono barbaramente trucidati da qualcuno che non capiamo chi o cosa sia. Fuori campo si sente, insistente, il pianto di un bambino. Due mani, una normale, una deforme, agguantano i cadaveri e li trascinano in una cantina. La villa è già stata teatro di un atroce delitto. Un professore universitario aveva massacrato moglie e figli prima di suicidarsi. L’università per cui lavorava decide di inviare Norman Boyle (Paolo Malco) nella villa per indagare sulla tragedia. Boyle si trasferisce nella casa insieme alla moglie Lucy (Katherine MacColl) ed il figlio Bob (Giovanni Frezza), il quale ha già avuto delle visioni, a New York, in cui una bambina gli diceva di non andare in quella casa. Bob ritrova quella bambina, Mae (Silvia Collatina) a New Whitby, e ne diventa un amico di giochi. Il film monta l’angoscia lentamente, ma crea atmosfera intorno alla villa trasformandola in un luogo fuori dal mondo.

Ritroveremo questa particolarità in altri due film precedenti di Fulci: “L’aldilà” (1981) e “Paura nella città dei morti viventi” (1980). In effetti “Quella villa accanto al cimitero” risulta essere il terzo capitolo di un’ipotetica trilogia sulla morte che il regista aveva creato tenendo in mente due autori specifici: Antonin Artaud, con il suo “Teatro della crudeltà”, e H.P. Lovecraft con i suoi racconti di esseri inumani.

Attrice icona di questa trilogia è proprio la MacColl, che incarna perfettamente l’idea di donna in pericolo di Fulci, classica eroina bionda con cui il pubblico può immedesimarsi.

Ma nel film anche altre presenze femminili risultano importanti, come la rappresentante immobiliare Laura (Dagmar Lassander), e la baby sitter a servizio nella villa, Ann (Ania Pieroni, già apparsa nel ruolo di Mater Lachrimarum nel film “Inferno” del 1980). Entrambe queste donne hanno però un’aura di ambiguità. Sembra che sappiano più di quanto vogliano far credere, sul passato della villa, specialmente Ann. La prova di questa ambiguità è data dalla sequenza dopo l’omicidio di Laura. Tornando a casa Lucy trova Ann a lavare il pavimento. La ragazza le da le spalle, coprendo con il suo corpo la scia di sangue lasciato dal cadavere di Laura.

Ma l’omertà è palpabile nel paese. Nessuno sembra voler rivelare a Boyle la verità sulla scomparsa del professore che lo ha preceduto. Tutti conoscono la villa dove lui ora vive, e ne hanno paura.

L’orrore inizia a manifestarsi per accumulo. Lucy scopre nel pavimento della casa una lapide con inciso il nome di Jacob Tess Freudstein. Nella cantina della casa Boyle viene aggredito da un pipistrello feroce che lo morde alla mano. Mae ha visioni di morte dove un manichino con le fattezze di Ann viene decapitato.

Gli omicidi che scandiscono la vicenda sono sotto il segno di quella crudeltà per cui Fulci divenne famoso. I corpi sono ferocemente feriti, con cattiveria e sadismo, con una lentezza che esaspera la vittima e lo spettatore. L’attizzatoio di ferro che fora il corpo di Laura in più punti, lo fa con il preciso intento di offrire alla vittima la consapevolezza della propria morte. Non colpisce subito punti vitali, lo fa solo al terzo colpo inferto al collo della donna. Il sonoro esaspera il momento della morte. Gli squarci nella carne, il fluire del sangue, sono sottolineati da effetti sonori amplificati di lacerazione e gorgoglio di liquidi. Lo stesso succede per l’omicidio di Ann, nel quale il coltello penetra più volte nella carne del collo della ragazza, prima di decapitarla definitivamente.

La crudeltà dell’assassino, ma in realtà del regista (in senso scenico, naturalmente) non risparmia nessuno.

Il mistero del film è sepolto nella cantina, insieme al mostro/assassino che è diventato il dottor Freudstein: un chirurgo dei primi del ‘900, radiato dall’ordine per i suoi esperimenti. Freudstein è divenuto ormai un mostro, un essere immortale che rigenera il suo corpo con parti dei corpi delle sue vittime. Un essere mostruoso, che non ha nulla di umano.

Ferito da Boyle con un coltello, mostra di essere soltanto un corpo nel quale regna la putrefazione e i vermi. Un corpo decadente, ma con l’animo di un bambino, forse le ultime vestigia di quei giovani corpi di cui ha sempre più bisogno. Per Fulci molto spesso, nelle sue pellicole, i bambini sono dei mostri, non consapevoli naturalmente. Da qui si ritorna al concetto espresso all’inizio dell’articolo con la citazione da James. La crudeltà dei bambini molto spesso è data proprio dalla loro innocenza, dal non avere ancora chiaro in mente il concetto di bene e male. Questo concetto è sottolineato dal pianto infantile che sempre accompagna i massacri del film. Il nome Freudstein è un chiaro omaggio al mostro di Frankenstein, ma riflette anche l’insofferenza di Fulci verso la pratica della psicoanalisi (incarnata nel nome di Freud).

Fulci sa dosare perfettamente la tensione e lo spavento. Una scena degna di menzione è quella in cui il piccolo Bob, rimasto chiuso nella cantina, regno del mostro, urla e chiede aiuto per uscire. Il padre cerca di sfondare la porta con un’ascia. Non sa che dall’altra parte della porta, Freudstein sta premendo il volto del bambino contro l’uscio, rischiando di farlo morire colpito proprio dall’ascia che il padre sta usando per sfondare il legno.

Fulci esaspera la tensione con violenti zoom che portano in primo piano i volti delle persone minacciate. L’assurdo prende totalmente potere nella pellicola, come quando Laura inciampa nella lapide del salotto, spaccandola e rimanendone intrappolata con il piede. Il pianto del bambino/mostro risuona nella villa. La fotografia di Sergio Salvati illumina tutto con un dolce alone di luce come se tutta la vicenda fosse un sogno, soprattutto nelle scene con Mae e Bob, facendoci capire che la bambina ha qualche cosa di non umano, come poi si rivelerà nel finale, quando la madre della bambina, Mary Freudstein (Teresa Rossi Passante), accompagnerà lei e Bob in quello che forse sarà il loro ultimo viaggio verso l’aldilà. Molto efficaci le musiche di Walter Rizzati, che sanno alternare momenti di triste dolcezza, nelle scene con Mae assorta nel suo dolore, a toni molto più selvaggi e violenti nelle scene in cui la tensione dilaga.

Prodotto da Fabrizio De Angelis per la Fulvia film, come i film precedenti, Fulci si sente libero di creare il suo universo visionario, anche grazie ad un budget non elevato. Paradossalmente proprio questo gli da la possibilità di sperimentare e comunque la qualità del prodotto finito non ne risulta intaccata. In effetti proprio con De Angelis il regista gira alcune tra le sue opere migliori. Il finale è estremamente simbolico. Bob, che cerca di fuggire dalla cantina di Freudstein, sale una scala che arriva nel punto in cui, al piano di sopra, che corrisponde al pavimento del salotto, c’è la lapide del dottore. La lapide è spaccata, e Bob cerca di uscire da quella crepa. Fa fatica, mentre dietro di lui Freudstein sta salendo la scala per agguantarlo. I suoi genitori sono stati uccisi dal mostro e lui può contare solo su sé stesso. Ma la crepa è stretta e lui non riesce ad allargarla, la lapide è pesante. Il pertugio nel marmo diventa, in quel momento, una sorta di utero dal quale Bob, a fatica, sta rinascendo ad una nuova vita. E’ quello che effettivamente succede quando, ad aiutarlo ad uscire dalla crepa, arrivano Mae e sua madre Mary. In realtà è chiaro che Bob sia morto, ma almeno a lui è stato risparmiato quel dolore, quella sofferenza che ha straziato i corpi delle altre vittime di Freudstein.

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