The Tragedy of Othello, the Moor of Venice, di Orson Welles (1952)

di Roberta Lamonica

L’adattamento cinematografico dell’Othello di Shakespeare, progetto che Welles volle fortissimamente e al cui processo di lavorazione avrebbe dedicato in seguito il documentario “Filming Othello”, potremmo definirlo il suo “claim to immortality”; Welles passò quattro anni alla ricerca dei fondi per finanziare l’Othello e per questo preciso motivo prestò il suo genio come attore, ne Il terzo uomo di Carol Reed, per citare un esempio illustre.
La versione cinematografica di Orson Welles dell’Othello (una delle docici realizzate) dura 91 minuti, quasi la metà della durata della rappresentazione teatrale, rendendo immediatamente evidente come il regista abbia apportato modifiche significative al testo dell’opera e con quali intenzioni artistiche. Welles ha cercato di fare un film che “non fosse un accompagnamento alla scrittura di Shakespeare… ma piuttosto usare quella scrittura – ciò che riteneva opportuno conservarne – come accompagnamento al sentimento che Shakespeare gli aveva suscitato”.

Egli non vuole rendere Shakespeare accessibile al pubblico, quindi non segue l’opera shakespeariana in modo lineare; piuttosto rivolge il suo Othello a un pubblico di cui si presume una familiarità con la trama – se non con il testo della tragedia – e una capacità di leggere e interpretare i temi complessi che sottendono la tragedia. A questo scopo Welles si serve di un narratore per stabilire il contesto generale, eliminando di fatto le prime due scene del dramma e creando un ‘proprio’ coerente arco narrativo. Il film non ‘rientra’ narrativamente nella tragedia shakespeariana fino a 5 minuti e 30 secondi dall’inizio del film, quando Iago esclama: “Io odio il Moro”. Folgorante.
Ma l’inizio stesso del film è folgorante: il corteo funebre di Othello e Desdemona si alterna a inquadrature di Iago trascinato in catene tra ciprioti inferociti. Le guardie lo gettano in una gabbia di ferro e lo trascinano sulle mura del castello. Lo spettatore condivide per un momento la prospettiva di Iago: la gabbia oscilla mentre è sospesa, la folla urla e il ritmo solenne della processione si perde.

Fin dall’inizio Welles stabilisce i ritmi opposti di Othello e Desdemona da un lato e di Iago dall’altro. E questa è solo il primo di molti contrasti netti nel film: l’apparente scomparsa del corteo funebre nell’oscurità alla fine della sequenza di apertura, contrapposta al sollevamento di Iago in gabbia nel bagliore spietato della luce del sole del Mediterraneo, stabilisce un altro contrasto tra luce e oscurità, funzionale al continuo cambio di prospettiva che è al cuore del processo di lettura da parte di Welles dell’opera. Ad esempio, Welles cerca di conciliare il dramma teatrale con il realismo di elementi spaziali non teatrali. La scena teatrale lascia il posto al realismo del mare e del cielo e alle polarità architettoniche, emozionali ed ottiche di Venezia e Mogador. Davies sostiene che “la manipolazione da parte di Welles dei due uomini nello spazio e in relazione alla luce solare naturale all’aperto, fa parte di una strategia generale in base alla quale Iago si sposta nella luce obliqua e Othello nella trappola dell’oscurità”. Il buio totale però lo si ha solo con lo strangolamento di Desdemona; c’è il minimo indispensabile di luce nella scena, praticamente girata in nero su nero, con solo alcuni punti di luce su Othello e Desdemona. Sempre Davies: “Dopo la scoperta l’omicidio,Othello viene inquadrato in campo lungo mentre guarda verso l’alto i volti increduli che lo fissano da una botola del tetto, come se fosse in fondo a un oscuro pozzo di isolamento.”.

E così Welles, dopo aver aperto il film con il cadavere del protagonista nel suo corteo funebre, lo chiude con la tragica oscurità gotica dei bastioni e dei cadaveri di Othello e Desdemona trasportati nel loro corteo funebre, seguita dall’inquadratura del riflesso del volto di Iago in gabbia sull’acqua, insistendo per un’ultima volta sul male deformante di Iago, sulla sua “motiveless malignity”. Il gioco di contrasti contrappunta tutto il film: il cinismo di Iago si oppone all’idealismo di Othello, il suo intelletto sottile all’istinto di Othello, il suo disprezzo dell’amore all’impegno totalizzante di Othello verso Desdemona. Le emozioni generate da questi contrasti – la sua capacità di suscitare pietà e terrore attraverso la quasi incredibile sofferenza di Desdemona e la tragica corruzione di Othello, fungono da motivo conduttore e nucleo tematico del film.
E sempre nell’ottica di un gioco di contrasti, il geniale regista sembra sviluppare due stili principali nel film: lo stile ‘Othello’, fatto di semplicità, grandiosità e iperbole e lo stile ‘Iago’, fatto di prospettive distorte, composizioni tormentate e ombre grottesche. La giustapposizione dei due stili è stabilita appunto in quegli strepitosi 5 minuti iniziali: la macchina da presa inquadra il volto di Othello nella bara da un’angolazione contorta, seguita da una lunga ripresa dell’ordinata processione elegiaca che si muove attraverso l’inquadratura da sinistra a destra. Tutto viene tagliato bruscamente per rivelare Iago incatenato e costretto a entrare nella piccola gabbia.

Ma chi è Iago? Questo ‘ancient’ che chiarisce fin da subito che lui “non è ciò che sembra”? Iago è probabilmente l’unico personaggio con una complessità psicologica nel dramma:“dentro di lui esiste una terribile solitudine [Iago]…Welles lo mostra in agguato in fondo alla chiesa dove Othello e Desdemona si sono sposati… Di volta in volta, il vento gli scompiglia i capelli sul viso, facendolo sembrare un animale predatore… Welles lo mostra ripetutamente in una posizione superiore , guardando sempre dall’alto in basso le sue vittime dai bastioni”. Ed è forse questa dimensione cosi stratificata di Iago che rende il personaggio di Othello (della cui interpretazione Welles non fu soddisfatto), piatto e fiacco. Nelle parole di Eric Bentley “Othello (Welles) non recita mai, viene fotografato – da vicino, da lontano, dall’alto, dal basso, con il lato destro in alto, sottosopra, contro i bastioni, attraverso la grata, e la differenza di l’angolo e lo sfondo sottolineano solo la piattezza di quel profilo, la rigidità di quelle labbra, l’ottusità di quegli occhi, l’assoluta inespressività e anti teatralità di un personaggio che è nato per essere un ‘genio’ teatrale”.
Nonostante la lettura di Welles non sia propriamente incentrata sul tema razziale in Othello, non si può negare che esso sia comunque presente e sullo stesso si innesta – qui inevitabilmente – la questione di genere.
Secondo Vaughan, la macchina da presa è usata come strumento dello sguardo patriarcale per tutto il film. Shakespeare feticizza la forma femminile e mostra quanto possa essere opprimente lo sguardo maschile.

Lo status di Desdemona come oggetto sessualizzato piuttosto che come persona ‘agente’ è evidenziato in molte scene del film. In particolare, quando viene presentata al fianco di Othello in abito bianco, il suo corpo viene enfatizzato come luogo di struggimento sessuale da parte degli astanti, ridotta alla posizione di una pedina nel gioco in corso tra i personaggi maschili, privandola di ogni capacità di agire. La convinzione di Brabantio che Desdemona non possa amare “il petto fuligginoso / di una cosa del genere” (I.ii.71-72) si basa sul presupposto razzista che tale amore sarebbe “contro tutte le regole della natura” (I.iii.101 ). Iago e Roderigo hanno stimolato l’ira di Brabantio con etichette come “vecchio montone nero” (I.i.88), “cavallo barbaresco” (I.i.113-14), e “moro lascivo” (I.i.126), associando razza ad animali, sesso e il diavolo, connotazioni tipicamente razziste. Nessuno contesta l’affermazione di Brabantio secondo cui Desdemona si è esposta al “pubblico ludibrio” (I.ii.70) sposando un uomo di colore; il pregiudizio è palesemente diffuso a Venezia, così come l’accettazione del ruolo che la società assegna alle donne. Ma quando l’azione filmica si sposta a Mogador tutti gli schemi sociali e culturali saltano e l’opera diventa veramente cinematografica nella sua drammatizzazione dello spazio e nella relazione tra mare, cielo, pietra, luce, ombra e oscurità con il personaggio e la sua situazione contingente. Il film crea continue suggestioni ‘visive’, come la gabbia di Iago, il motivo della trappola — che ricorre nelle sbarre in ombra che tagliano l’inquadratura — o il motivo dei collegamenti su il pavimento in pietra dove per un attimo si erge solitaria Desdemona, motivo che culmina nel fitto drappo teso sul volto di Desdemona mentre Othello la soffoca sul letto.

Il posto di Othello nella società veneziana gioca un ruolo importante nella sua ‘caduta’. Venezia è una società chiusa e razzista e il Moro si sente insicuro, isolato, alieno e alienato, incapace di definire la sua stessa identità fuori dalla dimensione eroica del ‘grande generale nero’ che gli altri gli attribuiscono e quindi destinato a fallire. Eppure, all’interno di questo ordine civilizzato, Othello è completamente padrone di se stesso, si muove e parla secondo i propri ritmi. (Jorgens); quando viene rimosso e isolato dall’arte, dal lusso e dalle istituzioni dell’onorevole Venezia, è preda di idee che dissolvono ogni traccia delle sue precedenti certezze. Ed è per questo motivo e non per altro che Iago può convincerlo che Desdemona potrebbe “pentirsi” della “sproporzione sproporzionata” di un matrimonio misto.
Al netto di adattamenti celebri e celebrati come quello del 1965 con Laurence Olivier per la regia di Patrick Barton, Stuart Burge e John Dexter e l’ultima versione a firma di Oliver Parker con Laurence Fishbourne nei panni di Othello e Kenneth Branagh in quelli di Iago, l’Othello di Welles è un’esperienza filmica indimenticabile e la sua sperimentazione è incredibilmente affascinante. Ciononostante, il film manca dell’intensità teatrale che la tragedia shakesperiana porta con sé e su di sé. L’Othello di Welles ci invita a rispondere principalmente all’immagine. L’Othello di Shakespeare, forse più di qualsiasi altra delle sue opere, insiste sul fatto che ci relazioniamo – a volte in modo ossessivo – con gli attori e con i personaggi al centro del dramma, manipolatori dello spazio e non parte della composizione, manipolati dallo spazio.

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