di Margherita Loglio
“Harry… puoi tornare oggi?”
Così Marion osa chiedere con voce spezzata nel suo squallido bagno stringendo il telefono tra le dita. Un’ultima disperata richiesta di aiuto. E se dall’altro lato della linea riceve come risposta uno scoraggiato e dolorosissimo “Si.”, mentre fissa la sua immagine nello specchio asciugando una singola lacrima che le riga la guancia, sa che Harry non tornerà affatto e che si trova definitivamente sola.
In Requiem for a Dream la solitudine gioca un ruolo principale, è il dolore dal quale i quattro protagonisti fuggono e anche uno tra i motivi per i quali cadranno nelle loro dipendenze, alla ricerca di una via d’uscita dalle proprie condizioni che sono incapaci di accettare, per inseguire ognuno la propria fantasia.
La pellicola di Darren Aronofsky, spesso banalmente ridotta con l’etichetta di film sulla droga, è un triste dipinto a fondo nichilista della condizione umana e su cosa succeda quando la fredda realtà distrugge l’illusione. Il compianto e la morte di un sogno, un requiem.

Harry, Sara, Marion e Tyrone sono innanzitutto sognatori che hanno avuto l’unica colpa di essere rimasti impotenti e indifesi da loro stessi e dalle circostanze crudeli della vita.
Sono seguiti parallelamente nel corso delle loro dipendenze durante l’arco di tre stagioni: estate, autunno e inverno, rispettivamente la loro euforica ascesa, rapido declino e irrimediabile caduta, con la calcolata strategica assenza della primavera come rinascita, come la classica redenzione che contraddistingue il Sogno Americano dalle infinite seconde possibilità.
Quattro destini inesorabili che termineranno in un terrificante climax simile ad un girone dantesco.

Il film pone lo spettatore di fronte al riflettere sulla natura di una dipendenza e domandarsi cosa significhi, che essa dipenda da un qualcosa di materiale, che si tratti di un farmaco o dell’alienante tv, o da qualcuno, come Marion e Harry (Jared Leto e Jennifer Connelly) che si riconoscono nelle proprie dipendenze e vedono nell’altro l’essere considerati umani per la prima volta.
“Tu mi fai sentire una persona…”

Nel film non esiste una dipendenza più grave di un’altra, inevitabilmente prima o poi l’inverno arriverà per tutti i personaggi, ma esiste dietro a ciascuna lo stesso bisogno di sentirsi accettati, la stessa necessità di dover riempire quel vuoto causato dalla loro inaccettabile solitudine e dalla distruzione delle proprie fantasie che inseguono incessantemente, ma che sembrano allontanarsi sempre di più.
Harry e Tyrone entreranno nel traffico della droga per raccogliere dei propri soldi, sia per permettere a Marion di aprire il suo personale negozio di abiti, sia per mantenersi, alla ricerca di affermare il proprio posto all’interno della società, tanto che Harry per prima cosa andrà a raccontare fieramente a sua madre di star gestendo una sua attività.
Si ritroveranno però inaspettatamente senza, incapaci di portare avanti le vendite e il loro personale bisogno.
Sara invece, all’inizio morbosamente attaccata alla televisione e al conforto che le portava il cibo, incomincerà a prendere delle anfetamine per dimagrire e arrivare ad indossare in tv il tanto amato elegante vestito rosso. Un vestito che rappresenta il suo unico legame con una vecchia immagine di sé ormai da tempo persa, ricordo del marito morto e del rapporto non ancora completamente deteriorato con il figlio. Un appagamento artificiale, un’esigenza di essere riconosciuta, un dover nutrire il proprio ego, che sia di pillole o di cibo.

“È un motivo per alzarmi al mattino. È un motivo per dimagrire, per entrare nel vestito rosso. È un motivo per sorridere, per pensare che domani sarà bello. Che cos’altro ho Harry?”
È utilizzato un montaggio rapido e ossessivo che fa ricorso a split-screens e opprimenti primi piani che ci permettono di osservare gli umani personaggi in ogni loro imperfezione e difetto: dallo sguardo vuoto al sudore o lacrime che imperlano il loro viso.

L’uso dello split screen invece rimarca lo stato di isolamento in cui si trova ciascun personaggio, già dalla scena iniziale tra Harry e sua madre Sara, dove lo vediamo rubare e vendere l’amata tv, che per l’ennesima volta lei sconfitta si andrà mestamente a ricomprare.
Ognuno dei due è alla disperata ricerca dell’amore dell’altro, nel quale vedono l’uno la propria realizzazione come persona, l’altra la propria realizzazione come madre, ma nessuno dei due sembra disposto a guadagnarselo.
La stessa tecnica si ripeterà nella scena tra Harry e Marion, i quali nonostante siano distesi sullo stesso letto, letteralmente messi a nudo, si trovano limitatamente racchiusi nella loro porzione di schermo, in una claustrofobica solitudine.

Le immagini si ripetono ipnoticamente, con il fine di sovrastimolare e lasciare senza respiro lo spettatore che non riesce a distogliere lo sguardo, sebbene spesso lo desideri, come durante il degenerativo finale, quella rovinosa discesa negli inferi alla quale seguirà un’apparente pesantissima quiete, non altro che una sofferta resa.
Chi guarda è spinto all’indignazione e al disgusto davanti a ciò che vede, in una critica verso la società benpensante media di cui lui stesso fa parte, facendola allo stesso tempo vergognare di se stessa e della sua ipocrisia.
È sottolineata la sua fredda insensibilità nei confronti del diverso e come si cerchi esclusivamente di estrometterlo, tentando di liberarsene in qualsiasi maniera.
Sara, incapace di ragionare, si reca agli studi televisivi mentre la gente ride di lei, qui è fatta ricoverare e sottomessa ad un violento elettroshock mentre Tyrone e Harry, provando a cercare aiuto in ospedale a causa del peggioramento del braccio di quest’ultimo, sono portati in prigione una volta allertata la polizia, ma inadatto ai lavori forzati, Harry è allontanato e come unica soluzione il braccio gli sarà amputato.

Il film si conclude con i quattro protagonisti rannicchiati in posizione fetale nei propri letti, dovunque l’inseguimento della propria bambina fantasia irreparabilmente distrutta li abbia portati, in uno schierarsi dal mondo esterno che non è mai stato meno che crudele con loro. Dal quale non sono mai stati considerati niente di più di dei tossici, niente di più di oggetti rotti inumanamente riparati.

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