Un affare di donne, di Claude Chabrol (1988)

di Girolamo Di Noto

Nel modo in cui Chabrol guarda la realtà, nel suo metodo di ricomporre i tasselli di vita reale presente nei suoi film, trapela sempre la disponibilità del regista di condurre l’attenzione su voci, gesti, abitudini, dettagli che possano in qualche modo determinare il senso del racconto, tuttavia tutto il suo cinema è percorso dal desiderio di far trionfare più la forma che il contenuto e soprattutto vuole che prenda il sopravvento più l’aspetto ambiguo, il lato oscuro che la chiarezza che consola.

Non sfugge a questo principio neanche Un affare di donne, inquietante ritratto di una donna popolana, Marie (interpretato dalla splendida Isabelle Huppert), che nella Francia del ’43, ribellandosi alla povertà in cui versa, comincia a praticare aborti clandestini, finendo sulla ghigliottina, vittima di chi, al governo, ritiene necessaria una sentenza “esemplare “.

Ispirato ad una storia vera, quella di Marie-Louis Girard, una delle ultime donne ghigliottinate in Francia, Un affare di donne è uno strepitoso affresco della Francia occupata, ma anche un modo emblematico per riflettere sull’ipocrisia del potere costituito che trova nella donna il suo capro espiatorio, la coscienza sporca di un paese che è diventato un gigantesco porcile e per viltà la immola sull’altare della restaurazione morale.

Chabrol non giudica i fatti, ma li rappresenta: grazie all’interpretazione da brividi della sua attrice-feticcio, che dona al personaggio una serie di elementi che lo rendoni controverso ed enigmatico, il regista francese non ha bisogno di prendere posizione, di spiegare certi passaggi, determinate evoluzioni della storia, ma non fa altro che concentrarsi sul volto fascinoso e ipnotico della Huppert per raccontare le sfumature desiderate, per rappresentare la vita di stenti di una donna resa povera dalla guerra, che si combatte dentro e fuori di lei.

Marie è costretta a barcamenarsi tra due figli piccoli e un marito debole e inconcludente (Cluzet) appena tornato dal fronte. Sogna una vita migliore, vorrebbe fare la cantante e mossa dal desiderio di migliorarsi non si rassegna alla disperazione. Ma in tempi di guerra è facile farsi sfuggire di mano il controllo, basta poco per passare dal desiderio di diventare qualcun altro all’essere cinici e pensare solo a sé stessi, basta un attimo per ammantarsi di illegalità: c’è carenza di cibo, spazio, riscaldamento, non ci sono soldi ma figli da sfamare, nazisti ovunque, donne che si vendono con militari ubriachi, casa umida, molti stenti.

Per garantirsi uno stile di vita migliore, comincia a praticare aborti clandestini a pagamento, affitta i locali dove abita alla prostituta Lucie (Trintignant), diventa anche l’amante del giovane Lucien (Tavernier), un collaborazionista dei tedeschi, che le permette lussi e svaghi fino ad allora inediti.

Marie è una donna che può procurarsi piacere solo trasgredendo: dalla miseria creata dalla guerra emerge una donna opportunista e affamata di vita, che vive al di là di ogni morale, allo stesso tempo vittima e carnefice, sfruttata e sfruttatrice, dapprima a disagio, poi sempre più partecipe di una società ipocrita e bigotta.
Si offre di aiutare delle donne ad abortire, ma non lo fa certo per filantropia. Il primo aborto è per amicizia, il secondo per un pezzo di sapone, dopo si farà sul serio, sarà sempre più fredda e legata ai soldi, avida al punto da prenderseli anche quando una donna morirà.

La Huppert sa mettere al servizio del personaggio tutta la complessità che la caratterizza, l’ambiguità di fondo, le contraddizioni di questa figura controversa che è amante di un collaborazionista, amica di un’ebrea e nello stesso tempo dimostra interesse per la Resistenza. In una Francia gretta e meschina, occupata dalla ferocia nazista e vista come luogo di propagazione del Male, Marie incarna una donna avida, dall’ambigua moralità, ma anche la donna libera da reprimere ad ogni costo. In una società che la vuole sottomessa e remissiva, Marie si dibatte come può trasgredendo prima di tutto il patto matrimoniale.

“Cosa mi rimproveri” , le chiede il marito – “Di non amarti” – risponde lei fredda e distante, poi cercando le condizioni della propria sussistenza anche a spese degli altri.

Premiata con la Coppa Volpi al Festival di Venezia, Isabelle Huppert è praticamente perfetta nell’incarnare una figura fragile e forte allo stesso tempo, sincera e avida, ribelle e rassegnata e grazie al suo fascino misto di eleganza e algida fierezza sa essere sé stessa senza aver bisogno di ostentare sofferenza per commuovere.

Chabrol le affibia un altro ruolo animato da contraddizioni, come lo è stato per Violette Noziere del 1978, come lo sarà per Mika Muller-Polonski per Grazie per la cioccolata del 2000: donne dal volto impassibile che celano dietro il quotidiano valzer delle apparenze, profondi abissi dell’anima, vuoti affettivi.

Se Violette avvelena i suoi genitori per rivendicare il proprio diritto alla libertà, Marie, invece, pur essendo mossa dallo stesso desiderio di riscatto sociale, perderà la testa e la sua ingenua voglia di venir fuori dalla miseria sarà annullata definitivamente da un Tribunale – guidato più che da magistrati da crociati dell’ordine di Vichy -, dalla condotta morale ambigua, che puniva a morte chi procurava un aborto, ma risparmiava la vita a chi si rendeva responsabile di deportazioni e rastrellamenti.

Chabrol lascia scorrere le immagini per quello che rappresentano, una realtà in cui ogni slancio vitale è annullato, in cui “è facile non fare stronzate quando si è ricchi”, un mondo in cui si è vittima designata di una tragedia annunciata già da alcuni segnali inequivocabili che il regista disseminata, come un’oca decapitata alla festa del paese o il desiderio di voler fare il boia da grande da parte del figlio di Marie.

Uno dei migliori film di Chabrol, gelido e corrosivo, pieno di dettagli che non indugiano a raccontare l’amara realtà della donna che usa il tavolo da cucina per far abortire, il pentolino in cui bollire l’acqua, i coltelli: un’opera indimenticabile in cui alla fine le tensioni accumulate si sciolgono in una vera e propria tragedia umana, a cui la Huppert dà vita, conferendo una maschera di dolore, sofferenza e pentimento che si stampa indelebile nella memoria dello spettatore.

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