di Girolamo Di Noto

Ciò che avviene all’interno della mente è quanto più complesso possa esserci: lo sa bene il grande regista spagnolo Luis Buñuel, che nella sua filmografia ha sempre toccato vene nascoste, realizzato opere dettate prima di tutto da sentimenti, emozioni, istinti. La sua ricerca è sempre stata una rivincita dell’ombra sulla razionalità del sole, un disvelamento continuo di realtà nascoste, una visione del mondo che ha messo a repentaglio ogni sicurezza dello spettatore.

Girato in Messico nel 1953 con pochi soldi e in tre settimane, molto amato dallo psicanalista Jacques Lacan che faceva vedere il film ai suoi studenti durante i suoi corsi universitari, Él è un geniale ritratto delle ossessioni a cui può portare l’idea borghese del “possesso”: uno studio scientifico di psicopatologia che ha come protagonista Francisco Galván de Montemayor (Arturo de Córdova), un gentiluomo d’altri tempi, religioso, conformista, all’apparenza di gesti nobili, ma che nasconde desideri e perversioni sessuali, animato da una gelosia così esagerata da sfociare in delirio paranoico e in una ingiustificata mania di persecuzione.

Francisco, come tutti gli altri personaggi famosi descritti da Buñuel, dal don Guadalupe di Adolescenza torbida al don Jaime di Viridiana, è un uomo fedele alle sue passioni, che alterna momenti di grande affetto a violenti accessi di gelosia, da perfetto paranoico ha manifestazioni morbose di possesso seguite da pentimenti repentini e disperate richieste di perdono. Buñuel affermò di aver studiato il protagonista come un insetto e da entomologo lo ha collocato sotto un vetrino da microscopio e lo ha analizzato nei minimi particolari osservandone i comportamenti, senza lasciarsi coinvolgere emotivamente. Il film non dà infatti giudizi moralistici sul protagonista ma racconta con ironia le conseguenze che certi valori culturali e religiosi hanno sul comportamento umano.

Buñuel è straordinario, soprattutto all’inizio del film, nel descrivere il personaggio con poche ma efficaci riprese: il film si apre in chiesa durante le celebrazioni del Giovedì Santo e con impareggiabile sintesi narrativa il regista mette subito in scena il feticismo del protagonista soffermandosi dapprima sui piedi dei bambini che si apprestano ad essere lavati e baciati dal sacerdote e in seguito su un’altra fila di piedini che appartiene alle fanciulle della buona società che assiste alla cerimonia. Tra queste c’è Gloria (Delia Garcés) che diventerà oggetto di una corte appassionata, al punto da spingere la ragazza a troncare la relazione con il suo fidanzato e sposare Francisco.

Nella scena della lavanda dei piedi c’è tutto Buñuel: iconoclasta, sovversivo, poetico, il regista sa passare con disinvoltura dalla devozione al feticismo con uno solo sguardo, fa saltare il cerimoniale ecclesiastico, deflagrare i rituali e i feticci della chiesa con una sola inquadratura e soprattutto sa sovvertire la realtà focalizzandosi sulle ossessioni perverse di un fervente cattolico, ancora vergine, che vede il male (degli altri) ovunque e che sogna una purezza originaria che non è più possibile, trasformando questa ansia inappagata nella propria sfera sessuale e nel rapporto con la moglie.

Il rito del lavaggio dei piedi introduce la deriva di un borghese gentiluomo che ha perso la bussola sulla propria psiche ed è alle prese con una frustrazione inarrestabile. Da quel momento Buñuel si concentra sul progredire della nevrosi ossessiva dell’uomo e lo fa più che con le parole con l’arma dello sguardo: Francisco è preso dal fremito di una passione amorosa inarrestabile quando guarda i piedi della donna, ha un impulso travolgente a desiderarla solo ponendole gli occhi addosso; ma non ca tralasciato il particolare che il guardare – proprio di un geloso – è l’arma del protagonista ed è anche quella che egli vuole negare agli altri, è il vedere ciò che non c’è, è lo sguardo che finisce nelle allucinazioni, come nella parte finale del film, quando, sempre in chiesa, si convince che tutti i presenti anziché pregare ridano di lui, quando “vede” persone che gli fanno il segno delle corna con le dita.

Traendo spunto dal romanzo Pensamicentos di Mercedes Puito, Buñuel mette in scena un raffinato sberleffo sulle frustrazioni che derivano dall’educazione cattolico-repressiva, una vivisezione dei meandri della mente di un paranoico che, oltre alla gelosia, mostra un egoismo radicale quando dice a sua moglie, nella torre della chiesa: “Odio la felicità degli stupidi”.
Sottomettere Gloria, per Francisco, non è che una piccola porzione del piacere che gli procurerebbe lo schiacciare la gente che passa sotto il campanile. Guarda con disprezzo la piccolezza della gente comune, “vermi che strisciano per terra – che se fosse Dio non perdonerebbe mai”.

Él è anche la riflessione sull’arretratezza e il maschilismo della società del tempo che portano a giustificare il comportamento maniacale di Francisco: Gloria vorrebbe trovare alleati per farsi consolare, per chiedere aiuto, per confidare il suo inferno matrimoniale ma tutti i tentativi le si ritorcono contro poiché finisce con l’essere considerata dalla madre stessa una cattiva moglie, volubile, capricciosa, dal sacerdote una “persona indecente”.
Ma più di tutto Él è un film bizzarro, che mostra le contraddizioni del vivere, la complessità dei comportamenti umani, che Buñuel delinea già a partire dai luoghi, chiusi, quasi soffocanti, come il monastero, la stanza dell’albergo, la casa, quest’ultima una villa di stile vagamente art noveau, fantasiosa, ” in cui c’è tutto, dalla ragione alla fantasia, dall’emozione all’istinto “.

La casa sembra adeguarsi alla psiche contorta del personaggio principale, il cui perbenismo di facciata cela mostri insormontabili: Francisco sa essere santo e possibile assassino, moralista e feticista, visionario e lucidissimo, ricco di sfaccettature psicologiche. Chiede per proprio tornaconto alla moglie di essere gentile col suo avvocato, poi l’accusa di aver amoreggiato con lui, vorrebbe sapere dalla moglie con insistenza cosa non le piace di lui, ma quando lei dice che lo trova un po’ ingiusto, lui si stizzisce, fotografa la moglie ma lui non vuole essere fotografato, non sopporta di vedere un quadro storto, ma poi cammina a zig zag.
Impeccabili sono le scene, in cui si vede il tocco bunueliano, che mostrano i modi in cui Francisco tenta o immagina ( con il regista spagnolo non si è mai sicuri di quel che si vede ) di uccidere la moglie ( le spara a salve, la vuole torturare con ago, corda, rasoio per cucirle il sesso, la vuole buttare giù dal campanile – scena che forse Hitchcock ricorderà bene quando cinque anni dopo girerà Vertigo) così come indimenticabile è la scena nella camera d’albergo, durante la prima notte di nozze, in cui lui crede che nella stanza attigua c’è un voyeur: l’azione di mettere un ago nella serratura per accecare “l’indiscreto ospite” ha la stessa valenza del rasoio – che fa rabbrividire chi guarda – del suo primo film Un chien andalou.

Él resta un capolavoro imperdibile perché non tutto è raccontato con precisione e sappiamo come tutto questo può apparire tanto più perturbante quanto meno esso è definibile, e soprattutto perché è un film sull’esasperazione della gelosia, una lucida rappresentazione – come ha scritto il critico Mereghetti – “di quanto male possa fare l’idea del possesso dell’uomo sulla donna, specie quando è mascherato dall’amore”.
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