di Laura Pozzi
‘Viridiana’ (1961), di Luis Būnuel. Con Silvia Pinal e Fernando Rey.
‘Viridiana’ nasce da un’immagine, da un ricordo della mia adolescenza. Quando avevo tredici, quattordici anni, ero molto innamorato della regina di Spagna, Vittoria Eugenia. Nelle mie fantasie vedevo sempre lei, ma come avvicinarla? Io un plebeo, lei una regina circondata da cortigiani. Allora immaginavo di entrare nella sua stanza, le mettevo un narcotico nel latte, lei lo beveva, si addormentava e restava alla mia mercè. Da queste immagini, sul filo del ricordo giovanile, è nato ‘Viridiana’. Più tardi oggettivamente, vi ho visto una critica della carità cristiana, ma onestamente devo dire che non era una mia idea precostituita”. Così racconta Buñuel nel corso di ‘Luis Buñuel – Il dubbio come libertà’.
Palma d’oro al festival di Cannes nel 1961, ‘Viridiana’ rappresenta l’opera più controversa, criticata e osteggiata di Buñuel, ma anche il suo capolavoro blasfemo pregno di tutta quella simbologia che contraddistinguerà in modo indelebile la sua poetica cinematografica. Il film non ebbe vita facile: fu duramente attaccato dal Vaticano e ripudiato dallo stesso governo madrileno, che dopo la premiazione non volle riconoscergli la nazionalità spagnola. Il motivo di tanto clamore è presto detto. Basti pensare alla discussa rievocazione de L’ultima cena di Leonardo Da Vinci, dove il regista aragonese sostituisce Gesù e gli apostoli, con un gruppo di barbari derelitti ospitati da Viridiana che demoliscono qualsiasi concezione di carità cristiana, trasfigurando tutto in un oltraggioso caos dove regnano orrore e violenza.
Viridiana è una giovane novizia, in procinto di prendere i voti. Prima dell’investitura si reca in visita dallo zio, che rivede in lei la moglie morta anni prima. L’ incredibile somiglianza lo spinge a soddisfare un morboso desiderio di possesso e dopo averla narcotizzata con del latte compie su di lei una finta violenza, ma il secco rifiuto della ragazza lo induce ad impiccarsi, lasciandole una cospicua eredità da spartire con il suo figlio naturale. Il senso di colpa, suscitatole dal quel gesto, la esorta a lasciare il convento per dedicarsi a dei poveri mendicanti, che ospiterà nella casa. La sua scelta, dettata dalla carità cristiana non tarderà a rivelarsi infausta costringendola a rivedere la sua fede e il suo credo, persuadendola a vivere con il cugino un ambiguo rapporto a tre.
Buñuel (non solo in questo film), è da sempre attratto dal tormento della fede cristiana, ma sopratutto dall’angoscia e dall’inquietudine che provocano in lui la sensazione del fallimento della carità. La virtù incarnata da Viridiana, sembra ridursi a pura illusione ed ipocrisia, l’assistenza caritativa è destinata ad infrangersi contro le miserie umane. Ma per comprendere a fondo lo spirito del film, non dobbiamo dimenticare l’importanza del surrealismo, elemento imprescindibile di tutta la sua opera. Attraverso esso, Buñuel riesce ad affrontare criticamente la realtà e superarla attraverso le pulsioni del profondo e le suggestioni del sogno. Il surrealismo rappresenta per lui la salvezza, il modo per evadere da un mondo oppressivo e soffocante. Fusione tra vita e sogno, in nome di una piena libertà d’espressione.
Viridiana è uno dei film più pessimisti del regista spagnolo, un pessimismo come da lui più volte citato che trae origine, da due esperienze contrastanti: la prima riguarda la sua infanzia, durante la permanenza presso i Gesuiti in un mondo chiuso, limitato, dettato da una ferrea disciplina, il secondo l’ ingresso nel gruppo surrealista, che rappresenta la via per la libertà. Tutta la sua vita, si è svolta all’ombra di questo conflitto, che tuttavia,ha permesso al suo genio di realizzare degli autentici capolavori, senza i quali la storia del cinema sarebbe impensabile.