di Bruno Ciccaglione

Killers of the Flower Moon è adattato dal libro di David Grann, che mette al centro della narrazione gli agenti della nascente FBI giunti in Oklahoma per indagare su una serie di omicidi a danno di appartenenti alla tribù nativa degli Osage, sullo sfondo della scoperta di giacimenti petroliferi nelle loro terre negli anni 20 del ‘900. Scorsese ribalta la prospettiva del libro: al cuore del film, infatti, non sta l’indagine di polizia, ma la relazione tra la popolazione indigena, improvvisamente trovatasi a gestire una enorme ricchezza dopo la scoperta del petrolio, e gli Europei-Americani, che con il più tipico degli atteggiamenti coloniali non esitano a usare qualsiasi mezzo per mettere le mani su quella enorme ricchezza, in un clima di impunità che non fa che alimentarne la spregiudicatezza.

La vicenda interessava molto Scorsese, ma presto si rese conto che c’era il rischio di un racconto meramente celebrativo dell’intervento salvifico della FBI, che giunge da Washington nell’America profonda a portare “giustizia”: non era questo il film che Scorsese voleva fare. Per ragioni produttive poi, fu data precedenza alla realizzazione di The Irishman.
Si deve alla intuizione di Leonardo Di Caprio, che nelle fasi iniziali di realizzazione del progetto avrebbe dovuto interpretare l’agente giunto da Washington a indagare sui crimini avvenuti, l’idea di concentrare invece il racconto sul personaggio di Ernest, sulla sua moglie “indiana” Mollie (Lily Gladstone) e sul potente zio senza scrupoli di lui (William Hale/Robert De Niro).

Scorsese, che nel frattempo aveva già preso contatto con il capo della nazione degli Osage, ha raccontato che il cambio di prospettiva nel raccontare la vicenda – realmente accaduta e ricostruita dal libro – gli offriva da un lato l’opportunità di una rappresentazione molto più ricca della cultura della tribù degli Osage, dall’altro gli permetteva di esplorare la relazione tra nativi ed Europei-Americani attraverso le relazioni tra i personaggi: la ricostruzione storica alla base del film è infatti il racconto della sostanziale depredazione di cui i nativi sono stati vittime, che diveniva molto più centrale abbandonando la traccia del racconto poliziesco. Inoltre questo approccio consente a Scorsese di esplorare molto meglio l’intreccio di relazioni intime e affetti che avvolge i personaggi, così ricco di suggestioni contrastanti.

Al solito Scorsese riesce a mostrare la complessità dell’animo umano, in cui convivono insieme le più disparate e talvolta apparentemente inconciliabili emozioni e passioni, con debolezze e fragilità accompagnate non di rado anche dalla ferocia. La relazione tra Ernest e Mollie è una relazione la cui ambiguità conferisce tensione a tutta la trama: era dai tempi di Vertigo, che non si vedeva al cinema una così crudele storia d’amore, in cui nessuno dei due protagonisti – pur da due prospettive moralmente molto diverse – è capace veramente di capire la natura della relazione che li riguarda, se non quando ormai sono già avvenute tragedie irreparabili.

Secondo la percezione diffusa intercettata da Scorsese nella comunità degli Osage, che pure della vicenda tragica raccontata nel film tramandano il racconto e l’ammonimento a diffidare dei “bianchi”, la relazione di Mollie e Ernest è stata comunque una storia d’amore, anche se lui è stato complice nel tentativo di ucciderla e lei fino alla fine si è rifiutata di vedere l’evidenza del ruolo di lui nello sterminio della sua famiglia. Ci volevano due interpretazioni superbe per dare vita a un simile groviglio di emozioni con la necessaria intensità e bisogna dire che sia Di Caprio che Gladstone in questo film si superano: Di Caprio nel corso del film sembra addirittura subire una trasformazione fisica, grazie a un uso della maschera facciale sempre più contratta e deformata; Gladstone ha una presenza imponente, conferisce una dignità assoluta al suo personaggio, pur nel dolore straziante cui è esposto, assieme alla sua malattia, per poi concludere evocando una forza morale che è quella di tutto il popolo cui appartiene.

Persino la figura di William Hale/Robert De Niro (inutile dirlo, anche lui straordinario), per la sorpresa di Roth e Scorsese che scrivono insieme la sceneggiatura, trova ancora oggi nella memoria collettiva di molti abitanti dell’Oklahoma una incredibile indulgenza: come diranno Scorsese e De Niro in una intervista, c’è ancora chi pensa che egli sia stato un benefattore e un amico dei nativi americani, nonostante sia stato condannato per la serie impressionante di delitti che il film rievoca. Nel rappresentarlo Scorsese e De Niro pensano chiaramente a costruire un perfetto esempio della cultura suprematista bianca, paternalista e intelligente (impara la lingua degli Osage, legge libri di antropologia e etnologia per capirne la cultura), che sa combinare la sofisticatezza di chi sa come funziona il potere dell’establishment alla spietatezza di chi non esita a manipolare e asservire un esercito di assassini disperati.

Il film si prende tutto il tempo necessario per un racconto non superficiale, intenso, colto e pieno di rispetto. Numerosi e importantissimi sono stati i contributi, sia alla elaborazione del film che alla messa in scena – con la partecipazione diretta in molte scene di attori scelti tra gli Osage – della tribù dei nativi. Il film si apre e si chiude con due rituali tribali: prima c’è quello della sepoltura di un calumet, con cui si prende atto della sconfitta dei valori con cui i nativi erano vissuti, di fronte all’evidenza di nuove generazioni che cresceranno invece in una società dominata dal denaro; alla fine invece, a partire dal ritmo scandito dai tamburi di pelle tradizionali, c’è un grande rituale di massa, ambientato ai giorni nostri, che celebra la persistenza e la vitalità della cultura Osage.

La forza del racconto è tale che si rischia di dare per scontato il rigore formale con cui il film è realizzato: la forza incredibile delle immagini, la grandezza degli spazi alternata con la camera fissa per lunghe scene quando è l’attore con la sua interpretazione a creare l’emozione, la suggestione delle musiche di Robbie Robertson (l’amico musicista di Scorsese che lo aveva affiancato dai tempi di The Last Waltz e che qui realizza la sua ultima colonna sonora, prima di morire nel corso del 2023). Scorsese non ha smesso di voler provare a fare cose nuove, ma lo fa anche costruendo uno spettacolo che è una esperienza visiva avvolgente. E pretende che alla sua opera sia data la stessa dignità di un’opera d’arte: “Il cinema è stato la forma d’arte del ventesimo secolo. Probabilmente nel ventunesimo secolo ce ne sarà un’altra, ma io considero così il mio cinema”, ha detto di recente.

Durante la conferenza stampa di presentazione del film a Cannes, il capo della nazione indiana Osage (che compare nel film interpretando il suo omologo negli anni Venti) ha raccontato come Scorsese gli avesse all’inizio presentato l’idea del film come di una storia di fiducia e di amicizia, che si trasformano in una storia di fiducia tradita e di amicizia finita. Grazie a questo film, ha raccontato ai giornalisti, la sua comunità ha di nuovo ristabilito una fiducia e una amicizia con almeno una parte degli Europei-Americani. Se un film sa fare questo, benché il cinema non sia probabilmente l’arte del tempo a venire, allora viva il cinema.

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