di Roberta Lamonica
“Come mai davanti alla più grande acciaieria d’Europa non c’è neanche una fabbrica di forchette? Lavoriamo per costruire la ricchezza di altri”.
(Aldo Romanazzi)

Paradigma di un modello industriale incompatibile con il mondo in cui viviamo oggi, con le riflessioni sulla sostenibilità e le azioni messe in atto per contrastare inquinamento e pericoli per la salute, l’Ilva di Taranto in realtà nasce come una “bella storia italiana”, come un grande riscatto del Mezzogiorno. Il quartiere Tamburi vicino all’impianto venne ampliato per ospitare il grande numero di lavoratori impiegati nell’acciaieria. Le case vicino alla fabbrica venivano viste come un ‘plus’ ai tempi dell’apertura dell’impianto. La crescita del tasso di occupazione e l’entusiasmo per una nuova spinta propulsiva per il territorio, faceva immaginare e sembrava promettere nubi rosa all’orizzonte della bella Taranto. Ma le nubi pian piano si fecero nere di fumo e veleni e intorno alla metà degli anni ’60 si iniziò a sollevare il problema dell’impatto delle attività dell’impianto sulla salute. Le persone iniziarono a morire e, nonostante la chiusura definitiva dell’impianto nel 2013, continuano a morire.

Palazzina LaF è un film sul lavoro, la perdita del lavoro e la dignità del lavoro ma è permeato di morte e dolore in tutte le sue forme: quella macroscopica della malattia che devasta le membra e uccide i corpi e quella sottile della progressiva perdita di identità in un contesto di vita che ingoia storie, vite ed esistenze.
Una storia italiana, dunque.
Il Sud, il parco minerali più grande d’Europa dell’acciaieria più grande d’Europa, la città dei due mari, la città avamposto, la città dell’Ilva.
Michele Riondino racconta una storia di appartenenza ed estraneità, di tradimento e delazione, di ignoranza e povertà, di umiliazione e sconfitta, di emarginazione e illusione. Illusione perché Caterino Lamanna (Michele Riondino), il protagonista di Palazzina laF, cede alle lusinghe dei vertici dell’azienda nella vana illusione di salire qualche gradino nella scala sociale, poter sposare la giovane compagna e dare senso a una vita scandita dalla monotonia di giornate sempre uguali, passate ad aspettare pullman sotto una pensilina nel mezzo del nulla (metafora di una vita senza prospettive), a timbrare badge per passare ai tornelli e a lavorare tra veleni e fumi nell’acciaieria.
Una storia di illusione e morte, anche. E che tra l’acciaieria e la morte ci sia un legame strettissimo è evidente fin dai primi fotogrammi. Una chiesa, un mosaico e una bara su cui è poggiato un casco di protezione. Un sacrificio sull’altare del progresso…
“Le magnifiche sorti e progressive” hanno un costo, l’insignificanza dell’uomo, delle sue illusioni e della sua vita, anche, un prezzo che si può pagare tutto sommato, no?” “ No”.
Caterino è arrogante e ignorante. È un Lulù Massa senza coscienza politica, senza alcun senso etico e senza coscienza di classe. Si sente superiore ai suoi compagni operai perché è “nipote del dottore” ed è terribilmente frustrato dalla malsana ripetitività del suo lavoro. La sua totale inconsapevolezza e incapacità di leggere la realtà secondo una prospettiva di comunione e condivisione lo porta a cadere nella trama ordita da Basile (Elio Germano), Mefistofele depotenziato a tentare un Faust senza sete di conoscenza o brama di eternità, un inetto, lusingato da una promozione fittizia e da una Panda aziendale.

Eppure è l’invidia e non altre motivazioni che spinge Caterino a perdere la propria ‘anima’.
Il miraggio di un luogo privilegiato dove lavoratori dell’acciaieria passano il loro tempo-lavoro senza far nulla, ugualmente retribuiti, scatena la rabbia sociale di Caterino, che si sente costantemente derubato di qualcosa (e forse lo è, ma non da chi pensa lui) e segna l’inizio della sua discesa agli inferi della delazione e del tradimento.
E non stupisce che agli occhi di Caterino, un individuo incapace di leggere la realtà nella sua complessità nemmeno quando essa si svolge chiaramente davanti ai suoi occhi, i lavoratori della palazzina LaF appaiano grotteschi, assurdi, macchiettistici. Allo spettatore, invece, sembra di assistere alla messa in scena di un girone infernale.
Il mobbing è come il veleno che si sprigiona nell’acciaieria e le sue conseguenze sulla salute dei lavoratori dell’Ilva sono drammaticamente rappresentate nei lavoratori che occupano la Palazzina LaF.: depressi, esclusi, esauriti, estraniati. A nulla serve l’onestà e la dedizione di Renato Morra (Fulvio Pepe) nel tentare di tenere i lavoratori uniti sotto la protezione del Sindacato come aiuto e sostegno nel recupero della dignità del lavoro e dell’individuo. La vergogna di Aldo, amico di Caterino, nel confidare la sua condizione di esiliato alla famiglia, il disprezzo negli occhi negli altri lavoratori, le ore che passano lentissime, infinite e inesorabili, il disorientamento della segretaria di Basile, Rosalba Liaci (Marina Limosani) nell’unirsi agli ‘emarginati’, il ricorso alla preghiera come forma di conforto e ultimo appiglio e speranza. Ognuno dei lavoratori della La F ha una storia di sogni infranti e desideri insoddisfatti.

“Questa ormai è una prigione”, dice sommessamente Tiziana, il personaggio interpretato da Vanessa Scalera. Ma la prigione pervade le esistenze dei lavoratori e dei cittadini di Taranto anche fuori dai 15450000 metri quadrati dell’Ilva. L’Ilva incombe sui veleni del campo di calcio de I Tamburi e sul panorama che Caterino guarda mentre ‘medita’ sui suoi giorni ‘bugiardi’. L’Ilva è ovunque. A fuoco per i protagonisti, sfocata per lo spettatore, eppure sempre presente come un morbo inestirpabile.
Caterino inizia lentamente a capire che i padroni in realtà vogliono solo distruggere i lavoratori e le loro famiglie, dietro le parole altisonanti con cui gli propongono il demansionamento o la cassa integrazione; capisce che la pecora che muore nella sua casa di campagna non muore per cause naturali; capisce che l’alienazione e l’inedia possono uccidere come e più dei fumi dell’Ilva. Sogna Caterino, di Cristo e Giuda, di sangue lavato via dalla Panda per cui ha tradito i colleghi, di una processione di venerdì santo, di campanelli che segnano inesorabili la fine del suo tempo.

Voleva piantare dei fiori, la Liaci. Voleva seminare bellezza in un mondo di cose brutte. Li semina e li vede crescere Caterino, solo, malato nell’ ‘ufficio’…“Avevo un ufficio”, dice con risibile orgoglio al processo che lo smaschera e ne determina la fine come lavoratore e soprattutto come uomo.
“Avevo un ufficio”. Quell’ufficio che per Caterino è simbolo di rivalsa e conta più di tutto il resto, anche perché, in definitiva, le relazioni che si instaurano nel film sono piuttosto contorte: chi sta sul fondo è solidale con i vertici e non con chi sta in mezzo, gli impiegati di livello. All’operaio Caterino quello che è a tutti gli effetti un declassamento umiliante ed annichilente, appare come una rilassante vacanza contrapposta al duro lavoro di ogni giorno.
Per Lamanna l’Ilva è l’Inferno e la palazzina una sorta di Purgatorio che può aprire le strade ad un suo piccolo Paradiso. Per chi vi è stato relegato è la Laf, invece, a costituire l’inferno, con i suoi gironi e i suoi dannati.
Ma Riondino alla fine ci dice altro: la palazzina è davvero un Purgatorio, un luogo di passaggio, ma non per Lamanna, bensì per gli impiegati che si aggrappano, come l’uomo di Dante, alla loro dignità e, alla fine, riescono a liberarsi.
Caterino, invece, né vittima né eroe, rimarrà nella Palazzina che per lui non può essere nessun Purgatorio ma diventerà il Limbo, il luogo senza tempo e senza speranza di uscita in cui, sempre Dante, ha collocato gli ignavi, quelli condannati alla peggior pena: di non essere amati né da Dio né da Lucifero e destinati, infine, ad essere dimenticati.

Cresceranno i fiori sul davanzale di quella palazzina senza più voci, senza più vita. Cresceranno rossi, come canta Diodato nella splendida La mia terra che ha scritto per l’esordio dietro la macchina da presa dell’amico Michele Riondino, ma Lamanna non li vedrà e soprattutto non potrà sentirne il profumo.
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