Dogman (2018), di Matteo Garrone

di Roberta Lamonica

Marcello torna a casa, l’unica che riconosca come tale, il negozio di toelettatura per cani che ha sempre gestito con amore e dedizione assoluti. Le spalle curve, il volto emaciato, livido come il cielo e come il cemento che definisce il suo mondo, lo spazio in cui vive. Ha occhi segnati che si aprono stanchi, enormi ed obliqui sullo squallore rassicurante e familiare di case fatiscenti, di altalene cigolanti, di giostre abbandonate. Sul suo volto non c’è più lo stupore infantile e quasi inconsapevole di prima della scelta. Marcello ha scelto e pagato. Ha titubato, ha avuto un’esitazione…ma poi ha scelto e ha pagato. Vuole chiudere la porta del suo negozio e anche quella del suo passato, Marcello. La prova a chiudere ripetutamente ma il vento è impetuoso e la riapre. Non si può fermare la tempesta che porta con sé il peso di un passato ineludibile. La macchina da presa dietro una finestra, fissa ineluttabilmente la distanza che da ora Marcello avrà con il mondo e l’inizio della sua Passione.

Eppure il mondo è lì dietro quella finestra sporca ad aspettarlo. Sempre uguale, sempre disperato. C’è Simone da qualche parte, lì intorno, e gli deve dare la ricompensa, il ‘biscottino’ per quella scelta. Marcello e Simoncino sono i Lucky e Pozzo di Beckett e il contesto spettrale in cui vivono, l’albero spoglio. E Godot non arriverà mai. E l’assurdo, in questa fiaba nerissima è l’estrema credibilità e verità della spirale di orrore in cui i protagonisti vivono. Il rapporto master-servant tra Marcello e Simone è rappresentato, anche fisicamente, come rapporto di superiorità fisica, di dimensioni. La macchina da presa, sempre ad altezza di Marcello, fa sembrare il suo amico/nemico/padrone come un boogeyman che infesta i sogni di un uomo qualunque, mite, semplice… ‘sempliciotto’. Ma anche Simone è un ‘sempliciotto’. Marcello ha trovato nel panorama umano che ha a disposizione (i suoi amici, il quartiere, l’amore per la figlia Alida), una chiave di lettura di un mondo che non afferra completamente. Simone ha trovato nella violenza e nella sopraffazione la sua chiave per leggere un mondo che parimenti non comprende. E su questa mancanza di strumenti cognitivi si costruisce un rapporto che nasce e si nutre della necessità di essere uniti per fare di due uno, per capire, per sopravvivere.

Ma la sopravvivenza all’interno di un rapporto in cui l’equilibrio e il buonsenso sono latitanti non si può ottenere e l’alterazione dei rispettivi ruoli porta necessariamente alla morte: biologica per Simone, sociale per Marcello, il quale solo a tratti sembra realizzare completamente la portata del suo gesto, fino a quel primo piano finale che tortura lo spettatore e lo tiene incollato alla poltrona con il cuore gonfio di angoscia. Quel primo piano su uno sguardo in cui c’è tutto il dolore del mondo.

Una risposta a "Dogman (2018), di Matteo Garrone"

Add yours

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: