Il bene mio, di Pippo Mezzapesa (2018)

Il bene mio… è anche il tuo.

  • di Andrea Lilli –

“Il bene mio” è un film di Pippo Mezzapesa (2018), con Sergio Rubini, Sonys Mellah, Dino Abbrescia.

Il film è stato girato ad Apice (Benevento), un borgo realmente terremotato, ed è la storia di una resistenza, quella di Elia, rimasto solo nel suo piccolo e antico paese divenuto fantasma, dopo un terremoto devastante. Tra tanti altri, il sisma ha ucciso Maria, il bene suo più grande, eppure non l’unico. Un altro bene suo, infatti, è la comunità’: i suoi amici, parenti e compaesani, scappati ‘più in basso’, in case e cose nuove.

Lui invece resta e resiste.

Oggi va di moda la parola ‘resilienza’, che viene dal latino re-salire ed è più adatta al ritirarsi, restringersi, contrarsi in sé nella sventura, mentre fuori e’ vento e tempesta, in attesa di tempi migliori. Non fa questo, Elia. Ri-salendo tra i ruderi del suo paese in rovina e vivendo dei suoi ricordi, egli non aspetta: i tempi nuovi li vuole realizzare, ricostruire.

Dopo Venezia, il film e’ stato proiettato in anteprima ad Amatrice: a Pippo Mezzapesa “tremavano le gambe”. Il regista ci ha raccontato due sorprese commoventi di quella sera: la tenda-sala di proiezione chiamata Paradiso, luogo di aggregazione sociale fondamentale per l’ancora distrutta Amatrice, e ci ha detto di una signora del pubblico, sbigottita perche’ anch’essa in possesso del ‘pesce cantante ballerino’, bizzarro oggetto-chiave usato in modo geniale da Mezzapesa nel suo film.

Dunque Elia riparte dal poco che rimane della vita sua e del suo mondo, si fa custode di una memoria millenaria abbandonata ma ancora viva e rischiando la follia resiste e lotta contro tutti, tutti coloro che vogliono dimenticare, che preferiscono elaborare il lutto cancellando ogni ricordo. Ma la sua sfida non è donchisciottesca, narcisistica, individuale. Elia è solo contro tutti ma non combatte solo per sé perché la sua identita’ non si ricompone senza quella autentica degli altri. A questi, intristiti, ingrigiti, rassegnati, vuole restituire i colori della vita per poter tornare vivo anch’egli. Il suo senso di sé passa attraverso il senso della comunità.

Nel silenzio apparentemente assoluto del borgo fantasma, Elia avverte ogni suono, ogni rumore della vita che c’era e che ci potrebbe essere. Il vederlo camminare tra i vicoli vuoti, ci ricorda una sequenza de “Il volo” di Wim Wenders, dove il regista accantona la finzione della sceneggiatura e si fa riprendere mentre percorre Riace, altro paese quasi abbandonato, e ne osserva le case e i negozi riabitati da persone reali, come sogna Elia…

Nel raccogliere i resti del suo paese e della sua vita, l’eremita convive coi vecchi fantasmi e accoglie nuove presenze: una dolce e impaurita migrante, una banda di giovani sciacalli. Nè questi, né quella, né altri, lo fermano. Non il sindaco-cognato, non il suo migliore amico, nemmeno la bella e disponibile Rita gli impediranno di portare al termine la sua battaglia. E’ una questione di vita e di morte, o meglio di mortificazione: sarebbe piu’ facile ma avvilente vivere una vita monca, cancellando una parte di sé o ripiegandosi nella sacralita’ feticista del lutto, come ne “La camera verde” di Truffaut.

Questo film è in fondo una favola, una di quelle che ogni tanto ci sono necessarie, per tutta la vita. “Io te vulevo bene. E te ne vojo ancora… bella mia”, canta Matteo Salvatore, pugliese come Pippo Mezzapesa, Sergio Rubini e il centro storico di Gravina, dove pure e’ stato girato “Il bene mio”. Alla sua ballata, l’unica d’amore che abbia scritto il bluesman di Apricena, accostato a Robert e Blind Willie Johnson nella ben curata colonna sonora, è dovuto il titolo del film.

Un tragico, comico, lucido e folle, umile e nobile, surreale e materiale Rubini ne è l’insostituibile protagonista.

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