‘Tre volti’ (2018), di J. Panahi e perché è necessario parlarne.

di Nino Rucola

‘Tre volti’ (2018), è l’ultima opera illegale di Jafar Panahi. Con Behnaz Jahfari e Jafar Panahi. L’importanza di vedere, parlare, scrivere di un film come questo, vincitore tra l’altro del Prix du scénario a Cannes 2018, travalica anche l’effettiva bontà della sua fattura. Il rischio che si prende Panahi (ma anche lo sforzo di chi riesce a distribuirlo al di fuori dell’Iran) deve servire da esempio per quegli atti di dissidenza e coraggio che troppo spesso dimentichiamo di compiere nella vita di tutti i giorni, ma che con grande facilità riconosciamo a persone e contesti considerati lontani anni luce da noi. Non bastasse questo, l’ultima pellicola del regista è tra le sue più riuscite e si può tranquillamente annoverarla tra le migliori uscite della scorsa stagione.

La storia si svolge nel nord-ovest dell’Iran, raggiunto dall’attrice Behnaz Jafari e da Panahi per fare luce su un videomessaggio arrivato all’attrice. Gli attori interpretano loro stessi, tra mockumentary e la passione mai celata del regista per il neorealismo

Un interrogativo assale lo spettatore per tutta la proiezione: ‘Chi siamo?’. Panahi, di ritorno nelle sue terre, è evidentemente un regista, condannato, censurato, privato della sua più grande passione e impossibilitato a lasciare il paese. Ma a tutto questo si ribella, inventandosi escamotage sempre più complessi per non rinunciare al cinema. E così la protagonista del videomessaggio nel film, costretta a inscenare un suicidio pur di entrare in Accademia e fuggire dalle angherie che è costretta a subire nel suo villaggio a pochi passi dai confini azeri.Ma la difficoltà nel fare cinema è la difficoltà a dover essere sé stessi in un mondo dominato dalla violenza gerarchica, gestito da uomini (e mai da donne) con regole retrive e che tendano a mantenere lo status quo, come la strada dissestata a senso unico che porta al villaggio e che consente il passaggio di una sola auto per volta. E l’auto assurge a forte simbolo totemico, anche qui.

“Marchio depositato del cinema iraniano, la macchina condotta da Panahi è un’invenzione (concettuale) di Abbas Kiarostami: è lui che eleva il veicolo al grado di ipostasi filosofica del cinema. Onnipresente nella sua opera, l’automobile diventa per Panahi uno stratagemma per aggirare la censura e insieme omaggiare Kiarostami”. (cit. Marzia Gandolfi)

Gli uomini del villaggio hanno deciso che una volta imboccata la stradina si debba usare il clacson in maniera estremamente codificata, affinché si possa far passare una sola vettura in entrambi i sensi. La scena, di per sé presentata in maniera buffa, si rivela altresì lo snodo metaforico del film. Le due donne protagoniste e un carico di vacche, riusciranno a sovvertire le regole, a spostare di un centimetro più avanti le possibilità umane, laddove la società maschile non vi era riuscita, tra volontà e capacità. L’emozione della scena è ancora più carica di pathos, come in tutto il film, grazie alla scelta e alla bravura di Panahi di essere spettatore dietro la macchina da presa, in grado di osservare ma di non poter, anche volendo, cambiare il corso degli eventi.

Bisogna parlare di Panahi, bisogna vedere i suoi film perché oggi, a fortiori, la sua narrazione si rivela una ricetta universale per capire noi, l’altr* e il contesto.

 

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