di Laura Pozzi

Enfant terrible del cinema francese, dopo una breve e poco esaltante esperienza come critico nei Cahiers du Cinéma, Leos Carax rappresenta ancora oggi un caso emblematico nella cinematografia mondiale. La sua passione totalizzante per la settima arte inizia sul finire degli anni settanta per poi esplodere nel 1986 con Rosso Sangue. Un film estremo, personalissimo che divide e affascina, ma soprattutto (anche a distanza di anni) continua ad abbagliare e destare stupore come una supernova miracolosamente apparsa nel nebuloso cielo d’oltralpe. Carax viene salutato come il nuovo Godard e rappresenta per il cinema francese quella anelata rinascita a lungo vagheggiata dopo la prematura e traumatizzante scomparsa di François Truffaut avvenuta qualche anno prima.

Forte della fiducia e della stima conquistata da parte della critica e da un sempre più nutrito gruppo di cinéphiles nel 1988 decide di girare il suo terzo lungometraggio che almeno sulla carta corrisponde ad un film in bianco e nero, dal budget ridotto e girato in super8. Il risultato è Gli amanti del Pont-Neuf, pellicola uscita nel 1991, dopo tre anni di lavorazione, traversie, numerose interruzioni dovute a cause finanziare e incidenti più o meno contigenti. Il film, uno dei più costosi del cinema francese (160 milioni di franchi) paragonabile al ciminiano I Cancelli del Cielo diverrà un vero caso mediatico, marchiando in modo indelebile il suo percorso artistico. Carax, riceverà critiche e ingiurie di ogni tipo e la sua opera maledetta verrà snobbata e confinata tra i film più fallimentari di sempre. Per molti, una stravaganza, una sventatezza perfettamente consona alla megalomania e supponenza del suo autore. In realtà sospendendo qualsiasi giudizio più o meno lecito, sarebbe opportuno considerare Gli amanti del Pont-Neuf per quello che realmente è: un’opera d’arte.

Carax è un pioniere dell’immagine, per lui il cinema non è semplicemente un mezzo per raccontare storie, (come dimostra l’essenzialità dei suoi intrecci) ma un modo per trascendere la realtà e sublimarla attraverso la purezza dello sguardo. Uno sguardo integro, radicale, senza filtri, inevitabilmente destinato all’oblio come quello dei suoi protagonisti: Alex (Denis Lavant) un clochard mangiatore di fuoco e Michéle (Juliette Binoche) pittrice benestante, prossima alla cecità, fuggita di casa dopo una cocente delusione amorosa. I due si incontrano per le strade spettrali di una Parigi distopica, notturna dominata da quel Pont-Neuf in ristrutturazione simbolo e dimora della loro sregolata storia d’amore. Un avamposto dimenticato, ideale per una passione folle, acrobatica, danzante caldamente osteggiata dal “coinquilino” Hans che non vede di buon occhio l’intrusa e resa fatiscente dalla minaccia di un miracoloso intervento chirurgico in grado di salvare la vista a Michéle. Alex, ne viene a conoscenza e accecato dalla gelosia in un impeto di rabbia, brucia tutti i manifesti con l’immagine dell’ amata e della cura prodigiosa, ma nel farlo provoca la morte di un operaio addetto all’affissione. Dopo l’arresto e la detenzione in carcere i due si ritrovano tre anni dopo durante la notte di Natale su un Pont-Neuf completamente restaurato. Tutto sembra cambiato, o forse no, magari c’è ancora spazio per un’ultima follia o per un’ ultima citazione amorosa (L’atalante di Jean Vigo) in nome di quella “magnifica ossessione” chiamata cinema.

Il talento visionario di Carax si annida nel DNA di ogni singola immagine. Sia che si tratti dell’emozionante visita notturna al Louvre, o del corteggiamento tra i fuochi d’artificio del 14 luglio, la sua percezione del reale si spinge sempre al di là delle apparenze. Il suo impulso trova perfetta sinergia nella scelta di raccontare la storia attraverso un duplice sguardo: quello freddo e distaccato ben evidenziato nell’incisivo incipit, e quello febbrile, convulso volutamente iperrealistico della vita sul ponte. All’inizio Alex ubriaco e ferito fa il suo ingresso nel ricovero di Nanterre. La macchina da presa penetra all’interno di una realtà dimenticata in avanzato stato di decomposizione, contrassegnata da corpi ammassati, menomati distrutti dall’alcool e precocemente invecchiati. Lo stile è fortemente documentaristico (i clochard sono veri clochard) e rispecchia l’esigenza caraxiana di confrontarsi con un mondo mostruosamente opprimente, privo di qualsiasi logica e redenzione. Ma non dimentica che il cinema ha la straordinaria capacità di rendere tangibili le emozioni per questo non può far a meno di appassionarsi alle pulsioni e agli slanci dei suoi protagonisti. Il suo intento è quello di fondere due realtà opposte (una vera e una di fiction) per farle convergere su di un’unica visione, dove svetta uno sguardo libero, cristallino privo di sovrastrutture, costantemente proteso verso un bagliore nuovo. Non importa quante scene siano state girate sul vero Pont-Neuf e quante su un ponte totalmente ricostruito. Carax ci offre una visione assoluta, spericolata a tratti inaccessibile. Cinque film (quasi sei aspettando con trepidante attesa l’uscita di Annette) in trent’anni di carriera. Cinque ottimi motivi per continuare ad amare il cinema. Incondizionatamente.
