di Venceslav Soroczynski
Un altro film di Dolan, di nuovo l’intensità in ogni sguardo, la penosa sospensione in ogni scena, il peso dei primi piani, dei primissimi piani. Anzi, cosa viene dopo il primissimo piano? Viene il piano “interiore”, quello che usò Bergman in “Persona”: dentro la bocca, dentro gli occhi, la telecamera riprende l’estraneità del protagonista dal mondo, l’alienazione dei comprimari, la vacuità della madre, l’inquietudine della sorella, l’incongrua dolcezza della cognata, l’acredine del fratello – con le sue tremende scarpe da tennis e la sua rabbia da adolescente.
Tutto è perfettamente fuori posto, nel film. Tutti sono fuori posto, il luogo stesso è fuori posto. Dopo un po’, si scopre che non è neppure la casa di famiglia, quella. Che ce n’è un’altra, probabilmente più apocalittica, teatro di chissà quali disastri passati. Ecco che lo spettatore sente un’altra fetta di pavimento svanire, una certezza in meno, un altro pericolo in agguato. E prova imbarazzo, soffre quanto i personaggi, si paragona a ogni scena. Non è esatto dire vado a vedere Dolan al cinema, si dovrebbe dire vado a cine-vivere Dolan, dato che chi guarda questo film diventa questo film. E il film diventa la nostra vita. Entriamo nella casa di famiglia del protagonista, buia anche se fuori c’è il sole, silenziosa anche se piena di gente. Si entra dove tutti hanno bisogno di incoraggiamento e lo chiedono al più piccolo, al più giovane, a quello che ne ha bisogno più degli altri, per una ragione che solo quella che pare la meno accorta di tutti, cioè la timida cognata, pare comprendere. Ma Dolan ci porge questa illuminazione con una sola parola, con una semplice domanda che la donna fa al protagonista, in una scena da manuale del Cinema. Ma tutto dura pochissimo, perché, il lampo di genio è, appunto, un lampo.
Entriamo nella casa dove una madre dice: “Sei strano. Pensi che non ti amiamo, che non ti capiamo. Hai ragione, io non ti capisco, ma ti voglio bene.” E ci chiediamo se questo non basta, se amare non è accettare ciò che non si può capire e ciò che non si può cambiare.
Funziona tutto, alla fine del mondo: i dialoghi sabbiosi, gli sguardi insostenibili, le inquadrature crude. Ogni parola sembra pronunciata dopo secoli di riflessione e, ciononostante, esce sbagliata. Eccessiva, o insufficiente. Un film geniale quanto la realtà. Crudo quanto lo è la morte, sesto personaggio di questa pellicola, il più potente, quello che non si vede, ma è in ogni stanza, appeso al lampadario, e guarda annoiato la vita degli altri cinque. Annoiato perché tutto è solo questione di tempo. Poiché la morte è anche quando non si riesce più a parlare, quando si ha paura di dire cose importanti e si annega nell’azione quotidiana, nel fare le torte, nell’andare a prendere le sigarette, nell’odiare caparbiamente l’universo.
Per fortuna, qualcuno ancora investe in questo cinema, paga questi registi, qualcuno li va a guardare, qualcuno me li segnala (Nicola Patruno, grazie!).
“La giornata può tranquillamente finire com’è cominciata: senza obblighi, senza importanza.” Le parole di quella madre ci fanno pensare immediatamente a come è stata la nostra giornata, quella che è finita. O a come sarà quella che inizia. Dà peso a ogni giorno in cui si vive e, a me personalmente, fa pensare che quelle due parole vadano usate insieme: l’unico obbligo che devo rispettare ogni giorno è pensare a quanto esso è importante.
Perciò, coerentemente con quanto ho appena scritto, mi alzo dalla scrivania e vado a vivere.
Rispondi