di Venceslav Soroczynski
Non chiediamo spiegazioni, è Lynch. Eppure non resistiamo a cercarne. Il motivo è lo stesso: è Lynch. Si avverte una claustrofobia, una compulsione, un dramma che, pur in assenza di un nesso di causalità immediatamente leggibile, o semplicemente in assenza di un nesso di causalità, stimola a cercare significati.
La spiegazione – la mia – questa volta arriva e arriva alla fine. Dopo un dialogo, una coreografia e una scenografia che con alcuni lampi mi hanno fatto pensare a Casablanca, il protagonista vede l’oggetto del suo amore e perde il controllo e abbandona quelle che potevano essere armi di difesa – cioè il silenzio, l’assenza di reazioni – e gli corre dietro. In quel momento dichiara tutto, ammette tutto, confessa tutto. Dopo l’incombere acustico del treno sulle rotaie, il puzzo nauseabondo della sigaretta scannata dal vecchio, l’angustia dell’ambientazione, la povertà delle suppellettili, la puerilità dell’arredamento, la stentoreità dell’illuminazione, Jack confessa anche il delitto che forse non ha commesso. La sua crudezza verbale nel difendersi dall’interrogatorio si scioglie alla vista della gallina. Alla vista di un pollo. E confessa perché la passione incontrollata è essa stessa una colpa – una colpa che noi, io stesso, abbiamo perso per sempre.
La svirgolante ricostruzione tentata dal detective raggranella un insieme di fatti probabilmente incoerenti e forse falsi, che girano tutti attorno al desiderio, che è il senso di tutto. Nessuno cerchi di provare il contrario, nessuno mi porti prove o ordinate ricostruzioni, perché questo è Lynch e quindi non siete voi a doverlo capire, è bensì lui che vi lancia un groviglio di suoni e immagini, un fagotto anti-narrativo che voi non dovete cercare di sbrogliare. Il vostro compito è solo toccarlo dall’esterno, passarci le mani e gli occhi sopra, per cercare di intuire cosa, dentro di esso, vi somigli. Poiché questo è a mio parere il fine del cinema di Lynch, un riversarci addosso l’incomprensibile affinché ne estraiamo una spiegazione di noi stessi, mai del mondo!
E noi siamo quei dialoghi pressoché sconclusionati, quelle accuse messe assieme noiosamente, col sospetto e senza prove, quella sconnessione, quel mal parlare, quel mal ragionare, quel mal vivere. E se Absurda è il nome della produzione, non è absurda la nostra reazione, poiché l’absurdità del mondo è pur sempre una sua descrizione fedele, come lo erano i conigli muti davanti alla tv che rideva solitaria e forzata, in quel capolavoro che fu Inland Empire.
Allora, il senso del film presso di me – dunque l’unico che ammetto – è che per amore si fa qualsiasi cosa. Il desiderio ci fa dire qualsiasi cosa, ci fa perdere le difese e tutto diventa absurdo, compreso il fatto che un uomo interroghi per caso, giusto perché i treni sono in ritardo, una scimmia che aveva una relazione con una gallina. L’amore giustifica un film senza senso, poiché l’amore stesso è privo di senso.
Il corpo dell’opera è quindi quell’interrogatorio, o meglio lo stesso interrogativo posto nel titolo o, meglio ancora, la risposta. E alla domanda: “Cosa ha fatto Jack?”, la sola risposta possibile è: “Jack ha amato”.
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