5 sceneggiati Rai per riscoprire gli anni 70 e sopravvivere a questi giorni.

di Greta Boschetto

Siamo in quarantena, sono tempi duri, per sopravvivere alla clausura l’unica soluzione è cercare di dare qualità al tempo, qualsiasi sia l’attività nella quale lo si voglia investire (a meno che non si decida di perderlo, che è un sacrosanto diritto pure questo).
Grazie alle innovative piattaforme di streaming che hanno rivoluzionato il modo di usufruire alla serialità televisiva, le serie tv sembrano un’invenzione nuova, frutto dei nostri giorni.
In realtà il nostro paese ha una tradizione passata di prodotti seriali di qualità altissima e d’avanguardia: gli sceneggiati, ovvero i nonni delle attuali produzioni.
Qui di seguito una selezione di cinque titoli in ordine sparso, non per creare un’operazione di semplice rimpianto ma soprattutto per far nascere la volontà di ritrovare le radici della nostra storia, televisiva e culturale.

 

“Il segno del comando”, 1971, di Daniele D’Anza con Ugo Pagliai, Carla Gravina, Massimo Girotti, Franco Volpi e Rossella Falk.
Un giallo gotico in una Roma alchemica e occulta in costante bilico tra presente e passato, tra mistero e realtà.
All’intreccio dell’indagine alla base della vicenda, ovvero uno studioso inglese che giunge in Italia per documentarsi su un soggiorno di Lord Byron nella “città eterna”, si sovrappone una pista sovrannaturale con misteriose figure ed inquietanti presenze.
Una lettera portatrice di segreti, consegnata allo studioso protagonista Foster, scritta da un pittore di Via Margutta che però risulta essere morto un secolo prima, dà vita alla voglia di svelare l’arcano. Tra le vie della capitale Foster, accompagnato dalla impalpabile Lucia, si lancia alla ricerca del segno del comando, un oggetto magico realizzato da un alchimista del 1700 che potrebbe essere detentore di un potere assoluto.
La suspense non cede mai, nemmeno agli occhi di chi non è abituato a una recitazione teatrale (magistrale) tipica degli attori degli sceneggiati di quegli anni, grazie a coincidenze, enigmi, visioni, medaglioni, quadri, sette e musiche maledette.  
Sono anni in cui il paranormale e lo spiritismo si mischiavano a cultura e storia, letteratura e cinema, anni a cui ancora adesso guardiamo con nostalgia (anche chi non li ha mai vissuti) e che si vorrebbero poter rivivere, per poter camminare in una Roma decadente e metafisica, canticchiando la stupenda sigla finale “Cento Campane” per poi fermarci in cerca di ristoro alla “Taverna dell’Angelo”.

 

“A come Andromeda”,1972, di Vittorio Cottafavi con Luigi Vannucchi, Paola Pitagora, Tino Carraro, Nicoletta Rizzi e Giampiero Albertini.
“Questa storia si svolge in Inghilterra l’anno prossimo.”
Così inizia ognuna delle cinque puntate, e già da subito respiriamo un profumo malinconico di un futuro inarrivabile, di dubbi, di speranza e di rinuncia.
Spazi ampi e desertici, il mare della Sardegna, una colonna sonora evocativa e sofferente come i lamenti lontani cantati da Edda Dell’Orso, come se anche lei ci parlasse dalle stelle, accompagnata dalle note di Mario Migliardi.
Una fantascienza all’italiana, povera di mezzi e di battaglie spaziali, piena di spionaggio e di romanticismo. Ma le mancanze non sono veramente mancanze, perché creano una visione unica nel suo genere, soprattutto in quegli anni di prime sperimentazioni fantascientifiche in Italia, trattando temi come la clonazione, lo sviluppo incontrollato e repentino della tecnologia informatica, gli organi militari più concentrati sul profitto che sullo studio.
Un senso di inquietudine ci pervade, dalla creazione del primo “calcolatore elettronico” sotto istruzioni aliene malvagie fino alla nascita di Andromeda, algida ed eterea.
I cupi presagi profetici si avvicinano pericolosamente ai nostri orizzonti, e anche lì come ora non ci sarà spazio per l’amore, quello fatto di cellule e attrazione come tra lo scienziato ribelle Fleming e l’aliena Andromeda.

 

“Dov’è Anna?”, 1976, di Piero Schivazzappa con Mariano Rigillo, Scilla Gabel, Pier Paolo Capponi e Teresa Ricci.
Un cult dell’epoca che ha fatto la storia della televisione, con 28 milioni di persone sintonizzate per vedere l’ultima puntata: Schivazappa alla regia è maestro nello scandagliare segreti morbosi e passioni, come già aveva dimostrato sul grande schermo con Femina Ridens e Incontro.
Passare anni sotto lo stesso tetto senza conoscersi realmente: è questo uno dei temi principali di questo sceneggiato, oltre al giallo della sparizione, e di puntata in puntata quello che ci domanderemo sempre più non sarà solo dov’è Anna, ma chi è Anna.
Attraverso gli occhi tristi del marito Carlo assistiamo a una ricerca spasmodica e angosciante, all’indagine di un uomo che vuole ritrovare sua moglie, uno squarcio sui sentimenti e sull’Italia di quei tempi.
Uno sceneggiato nello sceneggiato, perché in ogni puntata un aspetto segreto del carattere di Anna servirà a far da sfondo ad un tema d’attualità: adozioni, situazione nei manicomi prima della legge Basaglia,  relazioni extraconiugali, nuove dinamiche sociali e famigliari in una società in evoluzione che non ha ancora chiaro come approcciarsi al futuro che avanza.

 

“Ritratto di donna velata”,1975, di Flaminio Bollini con Nino Castelnuovo, Daria Nicolodi, Manlio De Angelis, e Luciana Negrini.
Stregato il grande pubblico con “Il segno del comando”, torna in Tv un altro sceneggiato che percorre sentieri “gialli” di trafficanti d’arte e passeggiate nell’occulto, in una nebbiosa e suggestiva Volterra ancora piena di magia lasciataci dal popolo etrusco, guardiani silenziosi di questa storia.
L’elemento paranormale si conferma fino alla fine, presentando venature quasi orrorifiche, ragazzini medium che parlano con voci di anziani, spettri a cavallo, reincarnati e porte dell’inferno.
Il male e l’irrazionale esistono e sono ovunque intorno a noi.

 

La porta sul buio, 1973, miniserie antologica di quattro puntate curata e prodotta da Dario Argento e girata da Luigi Cozzi (Il vicino di casa), Dario Argento (Il tram), Roberto Pariante (Testimone oculare) e Mario Foglietti (La bambola).
Chiudiamo la porta sugli sceneggiati e apriamo un portone sul buio, sull’ignoto, dentro la mente di Dario Argento, che in questa produzione non può fare a meno di ricordarci “Alfred Hitchcock presenta”.
Dopo il successo dei suoi primi film della trilogia detta “degli animali”, la Rai scommette su Argento, nonostante le severe restrizioni della censura rischiassero di soffocare la mente del regista. Non ci riuscirono: quattro episodi diversi ma tutti ben curati e claustrofobici che unirono perfettamente il cinema di genere alla televisione.

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