Velluto blu (1986), di David Lynch

di Laura Pozzi

C’è una scena in Velluto blu – film chiave e per chi scrive capolavoro di David Lynch – che racchiude in modo significativamente poetico/profetico la sua intera produzione artistica. Jeffrey (Kyle MacLachlan) è in macchina con Sandy (Laura Dern) e si interroga sulla stranezza del mondo. Il giovane appena tornato nella ridente cittadina di Lumberton per accudire il padre colpito da ictus ha trovato nel parco un orecchio tagliato ed è stato testimone voyeur di una violenta scena di sopraffazione ai danni della sensuale Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) da parte del ripugnante Frank Booth (Dennis Hopper). Jeffrey  è sconvolto, turbato, spiazzato da tanta incredibile ferocia, ma soprattutto è estremamente lucido nel percepire l’ impotenza e l’ incapacità di tener testa ad una realtà così raccapricciante. Sandy è lì, lo ascolta, lo osserva, ma non sa fornire una spiegazione, può solo contrapporre allo smarrimento di entrambi la rievocazione di un sogno fatto la sera del loro primo incontro. Nel sogno la ragazza è spettatrice di un mondo oscuro, tenebroso, privo di luce. Il motivo è l’assenza dei pettirossi che dopo essere scomparsi per lungo periodo, tornano a migliaia sulla Terra per riportare la luce accecante dell’amore. Solo quest’ultimo infatti sembra dar senso e contare realmente qualcosa, per questo – conclude Sandy – il mondo sarà avvolto da oscurità, fino a quando non torneranno i pettirossi.

Quando la realtà supera l’immaginazione. Chissà se Lynch, dall’alto dei suoi incubi avrebbe mai ipotizzato che 34 anni dopo il mondo sarebbe precipitato in un’oscurità ancora più accecante. Cercare un confronto con l’avveniristica visione di Velluto blu, appare  in questo momento più opportuna e attuale che mai. Non solo per (ri)scoprire il fascino e la maestosità di un cult movie inarrivabile, ma soprattutto per cogliere il messaggio intrinseco che ognuno di noi può estrapolare da un’opera tanto complessa quanto priva di oggettività. Anche se a ben vedere Blue Velvet da quel momento in poi sarà il film più lineare e comprensibile (ad eccezione di The Straight Story) del regista americano. L’idea nasce dopo il flop di Dune e si riallaccia a una suggestione, a un ricordo d’infanzia che Lynch tenta di cristallizzare in immagini per esorcizzare un mondo che fatica a decifrare.

E allora si parte dalla superficie dell’ovvio, del visibile, del lapalissiano, per poi sprofondare quasi automaticamente nel regno dell’’incerto, del claustrofobico, dell’occulto. Un sipario blue velvet dischiude le tende sulla luminosa Lumberton: sole, villette a schiera, fiori, bambini spensierati attraversano la strada, amichevoli pompieri salutano con la mano, tutto sembra scorrere come in una perfetta soap opera americana anni cinquanta. Fino a quando qualcosa stride, compromettendo quell’inespugnabile armonia. E’ la pesantezza e l’imprevedibilità di un uomo che crolla a terra, vittima di un malore, mentre annaffia il suo giardino. Un fatto spiacevole certo, ma ancor di più un sortilegio necessario a spostare l’attenzione e la macchina da presa verso il basso indirizzandola nei pressi di un campo brulicante di insetti dove un orecchio mozzato giace in stato di decomposizione. Lynch decide di non indietreggiare, ma di addentrarsi in quella selva oscura, lasciando il timone a Jeffrey Beaumont e all’angelica Sandy, figlia dell’ispettore Williams a cui il giovane consegna la macabra scoperta. L’apparizione notturna di Sandy, è di quelle indelebili, sia per grazia che per importanza: è lei il vero motore dell’azione e sono sue le “soffiate” decisive ad avviare la storia verso l’abisso di un febbricitante thriller/ noir.

 Lynch per oltrepassare la soglia del tangibile si serve di un’orecchio mozzato scolpendo definitivamente  il suo cinema nell’immaginario collettivo. Incubo e sogno gettano le fondamenta del suo delirante universo narrativo, creando due mondi interscambiabili dove l’uno non può esistere in assenza dell’altro. In Lynch vige sempre il principio della dualità e qui più che mai si esplica nella figura di Dorothy, una donna martire vessata da loschi individui sul punto di uccidersi. Jeffrey non può rimanere insensibile alle sue perversioni, così come non può fare a meno della purezza di Sandy. Una storia in equilibrio tra bene e male, costantemente illuminata dalle tenebre e continuamente minata dai contorni di un sogno incubo che tarda ad imporre una propria identità. Nonostante l’assenza di una vera e propria sceneggiatura, Lynch riesce a delineare il racconto grazie a sequenze perfettamente concatenate tra loro e rese ancor più eloquenti da atmosfere mai fini a se stesse. Le regole del noir vengono stravolte e rimodellate su un genere nuovo dove ciò che conta non è lo svelamento dell’intrigo, ma il continuo avvicendarsi di due mondi paralleli. Dorothy e Sandy, due facce della stessa medaglia, o scomodando un pò audacemente sir Alfred Hitchcook un omaggio alla duplice Kim Novak de La donna che visse due volte. Da qui l’importante prima apparizione di Sandy: una donna che sembra riaffiorare dalle tenebre, le stesse vissute in prima persona da Dorothy. Ed ecco arrivare la quadratura del cerchio con la sequenza citata all’inizio. Tutto finisce dove è cominciato, l’orecchio di Jeffrey ci conduce fuori dal tunnel riportandoci alla solarità dell’incipit. E’ stato tutto un sogno? La luce ha avuto la meglio sull’oscurità? Probabilmente non lo sapremo mai, ma è assolutamente vitale continuare a credere nel sogno di Sandy. In attesa che anche per noi tornino i pettirossi sulle struggenti note di Angelo Badalamenti.

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