Creature del cielo, di Peter Jackson (Heavenly Creatures Nuova Zelanda/GB 1994)

di Laura Pozzi

Con quasi trent’anni d’anticipo sui fratelli d’Innocenzo, Peter Jackson nel 1994 realizza una favolaccia che non avrebbe sfigurato, ma altresì impreziosito il loro ultimo e acclamatissimo film. Creature del cielo sbarca  in concorso a Venezia a metà degli anni 90, un periodo fertile e carico di aspettative per il cinema neozelandese che vive una personalissima nouvelle vague grazie alle sensuali Lezioni di piano di Jane Campion e alle cruente faide parentali di Once Were Warriors-Una volta erano guerrieri, lo sporco e folgorante esordio alla regia di Lee Tamahori. Le creature di Jackson si inseriscono fra questi due poli abbattendosi sul Lido con la forza di un meteorite e su una giuria capitanata da un David Lynch sottilmente sedotto da quel bizzarro e invasato universo, popolato da due femmine folli poco più che adolescenti e vagamente famigliari. Tanto che non ci pensa due volte ad assegnargli ex equo con gli altri altrettanto meritevole Il toro di Carlo Mazzacurati e Little Odessa di James Gray il Leone d’argento alla regia. Il film (nomination agli Oscar come miglior sceneggiatura) vanta tra le altre cose il battesimo sul grande schermo di una giovanissima, talentuosa e già navigata Kate Winslet, che la spunta su quasi duecento pretendenti prendendo il largo verso un successo di dimensioni titaniche. Come nell’incipit narrante di Favolacce, il film di Jackson si ispira ad una storia vera, a sua volta ispirata ad una storia falsa (quella vissuta nella mente delle due protagoniste). Quello che diverge semmai è che la storia falsa nel regista neozelandese è decisamente ispirata ed è quella che trasfigura un sanguinoso fatto di cronaca nera in una morbosa e surreale fiaba adolescenziale filtrata dallo sguardo visionario di un autore che mescola i generi più disparati senza sposarne nessuno.

Per Jackson considerato fino a quel momento un mago del B movie, specializzato in prodigi splatter horror, non è così scontato passare da uno stravagante e sottilmente perverso racconto di formazione ad un thriller ad alta tensione dove si attende solo la fine della vittima designata. Eppure grazie ad un meticoloso lavoro di  ricerca e di accurata ricostruzione basata sulle annotazioni di un diario che inchioderà definitivamente le monelle, il viaggio onirico partorito dalla sua mente genialoide si trasforma nel passpartout necessario verso un cinema d’autore. La storia, ambientata nei primi anni cinquanta prende avvio sullo sfondo di una ridente cittadina neozelandese Christchurch, la città delle pianure, che una voce narrante commenta su evocative immagini di repertorio. Inaspettatamente un rimando lynchano provoca un brivido lungo la schiena: nella rassicurante e stucchevole routine di quei frame iniziali annusiamo e udiamo l’orrore mortifero di Velluto Blu, intravedendo la lucida e spietata follia di un antesignano Truman show. In sottofondo urla strazianti squarciano l’idilliaco poemetto visivo, mentre un’angoscia profonda inizia indisturbata a serpeggiare. Due ansimanti ragazze in fuga, con il volto coperto di sangue corrono terrorizzate tra rovi e sterpaglie in cerca d’aiuto, opponendosi all’alternanza di immagini che le coglie in armonia con il mondo. Grazie a un incipit frastornante e dirompente Jackson, imprime il suo marchio di fabbrica con ammirevole disinvoltura costruendo più universi paralleli attraverso i depistaggi di una narrazione scomposta, contrastante, libera da qualsiasi conformismo, ma assolutamente credibile anche quando l’elemento fantasy cerca in parte di smussare gli angoli ai macabri contorni di un tragico epilogo.

Pauline Parker (Melanie Lynskey) è una quattordicenne torva, insofferente perennemente imbronciata e in disaccordo con il mondo. Un bel giorno irrompe nella sua classe il ghigno pestifero di Juliet Hulme (Kate Winslet), ragazza sfacciata e irriverente figlia di genitori assenti e superficiali. Tutto il contrario di Pauline costretta a convivere nell’abbaino afissiante di genitori bigotti e privi di immaginazione. Le due ragazze si percepiscono, si scrutano, si piacciono. Complice un passato di malattia (cicatrici ai polmoni per Juliet e osteomielite per Pauline), capace di rafforzare e rendere totalizzante un legame autentico, privo di asprezze sempre sul punto di sconfinare. Non è facile star dietro alla smodata irruenza con la quale le ragazzacce terribili abbracciano e allo stesso tempo respingono una realtà ostile. Le vediamo correre, urlare a squarciagola, confidarsi nella vasca da bagno, rotolarsi e abbracciarsi nell’erba in biancheria intima, mentre una mdp in costante affanno tenta inutilmente di raggiungerle. Ma niente da fare, loro sono lì, sempre un passo avanti rispetto a quel mondo triste e opaco che tenta inutilmente di ingabbiarle. Un mondo ostile che osserva in cagnesco due pazze furiose (così si definiscono) e decide di tagliarle fuori attraverso le armi del  finto rigore e del sordido perbenismo. Tuttavia nulla può contro l’inviolabilità del quarto mondo, ovvero un paradiso senza cristiani, creato dalla vivida e disperata immaginazione di chi sfrontatamente si oppone ad una realtà grigia e opprimente.

Un eden abitato da statuine di creta, frequentato dai divi del momento pervaso da musica, arte, godimento, dove rifuggiarsi, assumere un’altra identità, assecondare gli istinti e sbeffeggiare monumenti viventi come l’odioso Orson Welles. Tuttavia la loro liaison suscita qualche perplessità, instillando sospetti innominabili soprattutto per una società che vede e tratta l’omossesualità come un malattia mentale da estirpare. A quel tempo la Nuova Zelanda è un ex colonia britannica, ma è ancora troppo ancorata ai dogmi della Corona e al suo atavico bon ton. Il male mostra il suo volto, attraverso le fattezze di Honora Parker decisa più che mai a separare le ragazze, ponendo fine a quell’amicizia sconveniente. Da questa funesta prospettiva scaturisce il diabolico piano per eliminare un “ostacolo” che neppure il quarto mondo riesce ad edulcorare. Le due ragazze commetteranno il crimine in un crescendo insostenibile di orrore e suspence, per poi essere arrestate, condannate e successivamente liberate con l’obbligo di non rivedersi mai più. Per la prima volta una storia d’amore al femminile viene narrata dal punto di vista di due adolescenti. Jackson è fra i primi a sdoganare una tematica che di lì a poco investirà tanto cinema indipendente americano e non solo. Ma la vera importanza di un film come Creature del cielo risiede nella straordinaria padronanza tecnica con la quale il regista riesce a tenere in piedi con precisione chirurgica e con l’ausilio di (allora) innovativi effetti speciali una narrazione “bipolare” facile preda di squilibri drammaturgici e turbamenti emozionali. Una favolaccia sapientemente raccontata e trasformata da Jackson in un amabile resto della sua filmografia.

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