- di Andrea Lilli
Nel 110° anniversario della nascita di Akira Kurosawa (23 marzo 1910) e in un periodo di confini ristretti come quello da incubo in cui stiamo vivendo, questo racconto denso di colori e dai larghi orizzonti naturali e umani, basato su fatti e personaggi reali è il miglior regalo che possiamo farci, nel ricordo del grande regista giapponese.
Si basa sul libro scritto nel 1923 dall’esploratore militare russo Vladimir Arseniev sul cacciatore nomade Dersu Uzala (1849–1908), suo amico e guida durante due spedizioni cartografiche condotte nel 1902 e nel 1907, dunque ai tempi dello zar Nicola II, nella taiga dell’Ussuri, Siberia orientale. Non è il primo film ispirato dallo stesso soggetto: un altro Dersu Uzala fu girato nel 1961 dall’armeno Agasi Babayan, ma è stato quasi dimenticato.
La trama. Dopo una breve sequenza che trasforma il resto del film in un flashback, l’azione si svolge in due tempi, che raccontano due successive spedizioni cartografiche.
La prima, nell’autunno-inverno del 1902, vede la squadra di sei soldati condotti dal tenente Arseniev avventurarsi con i cavalli nel freddo della taiga siberiana, tra fitti boschi e larghe pianure. Il bagaglio più importante è lo strumento di rilevazione topografica, montato su treppiede come una cinepresa, che seguirà i nostri eroi per tutto il percorso accidentato, imprevedibile, pericoloso. Tanto è ostile il cammino che, provvidenzialmente, la sera in cui Arseniev annota sul diario di viaggio “Ci accampiamo in una foresta tetra, posto ideale per un sabba di streghe“, irrompe ed è ben accolto nel gruppo un angelo con bandana e pipa, gli occhi piccoli infossati in una testa grossa, attento, scattante, ironico. Parla una lingua strana, da straniero, ha dimenticato la sua età, ma non il nome: è Dersu Uzala (pronunciato con l’accento sulle vocali finali).
E’ un cacciatore nomade di etnia Goldi (o Nanai). Da quando la peste gli portò via moglie e figli ha fatto della taiga selvatica la sua casa. Gli viene proposto un piatto di minestra e di fare da guida, cose che accetta senza bisogno di dire di sì. Dal mattino dopo si mette alla testa del gruppo, in silenzio, scovando sentieri, tracce, trappole. Le parole, come le pallottole del suo fucile che “non vanno sprecate“, le usa con parsimonia e precisione, solo per quel che serve. Per il resto è generoso. Non uccide più animali di quanti gli servono per campare, ha rispetto per loro come fossero umani; e prima di ripartire dalle capanne in cui trova rifugio ripara il tetto e lascia un po’ di cibo, per il prossimo viandante che verrà, fosse anche uno sconosciuto che non incontrerà mai. Arseniev capisce le sue virtù, ne ammira la saggezza rude, apprezza e sfrutta la sua esperienza, e i due fraternizzano. Dersu insegna agli altri come sopravvivere e siccome c’è sempre chi è lento ad imparare, salva la vita del ‘Capitano’ in un paio di occasioni.
Kurosawa dimostra il suo amore per la pittura, frequentata prima di aver scelto la carriera di regista. Qui ha attinto a tutti i colori della tavolozza, secondo le quattro stagioni: i chiari e scuri gelidi dell’inverno, i verdi blu acquosi e i marroni molli della primavera-estate, i gialli ocra arancioni rossi dell’autunno, dei falò. E dei tramonti. Quanti tramonti in questo film, girato da Kurosawa dopo un tentativo di suicidio al culmine di un periodo di profonda depressione. Durante il più suggestivo, la luna già alta sulla sinistra dello schermo mentre il sole cala sulla destra, Dersu espone al militare la sua visione sciamanica del mondo.
“Tutte le forze della natura sono uomini, e il sole è l’uomo più forte di tutti, perché se questo uomo muore, tutti moriamo. Ma anche la luna è uomo, e il fiume, il vento, il fuoco, gli animali. Tutto ciò che vive, è uomo. E se si arrabbia fa paura.” Per questo bisogna temere le acque, il vento, il fuoco, e non si devono ammazzare più animali di quelli che servono, e le trappole vanno smontate quando si finisce di usarle, per non uccidere inutilmente. La prima parte si conclude con il distacco, ancora una volta al tramonto, tra i due ormai amici. – Vieni con noi in città? Si sta bene, è bello. – No, io non può, che io fare in città, a caccia andare? No. – Almeno accetta cibo e soldi. – No cibo, no soldi, no serve. Zibellino e alce cerco, uguale soldi. Io vuole poco poco pallottole.La seconda spedizione inizia cinque anni dopo, nella primavera 1907. I ghiacci sciolti e le piogge rendono molle il terreno. Arseniev giunge nel distretto di Ussuri con più uomini e cavalli, c’è il solito rilevatore col treppiede e la solita inesperienza degli elementi naturali. Spera di ritrovare l’amico, e il cacciatore riappare. Commovente l’abbraccio fraterno tra i due. Dersu torna a guidare il gruppo tra zanzare e tafani, e a salvare la vita ai soldati. Che stavolta però ricambiano. Poi uccide una tigre. Si pente di aver ceduto al panico, avrebbe dovuto solo spaventarla. Da quel momento teme la vendetta di Kanga, lo spirito della foresta, che un giorno gli manderà un’altra Amba (tigre). Arriva la breve estate, poi l’autunno. E’ la stagione del declino anche per Dersu, i cui occhi non vedono più a sufficienza per affrontare l’inverno. Finita la missione, accetta di venire in città (come canterà Gaber), ospite benvoluto di Arseniev e famiglia.
Non resiste a lungo. Non si può più sparare, tagliare un albero per il fuoco, fare una capanna in strada. L’acqua e la legna si pagano, assurdo. Al posto dei falò c’è un camino triste e ingabbiato. Nella stanza si sente come… “un’oca. Come possono gli uomini vivere in una scatola?”. Non gli basta l’affetto di tutti, insegnare quel che può al bambino. Gli manca l’aria, deve ritornare nella taiga. Arseniev gli regala un fucile più leggero e ad alta precisione, per compensare il deterioramento visivo. Si salutano, e stavolta è un addio.
Con quest’opera Akira Kurosawa conquista il suo secondo Oscar per il miglior film straniero (1976). Ne aveva vinto già uno nel 1951 con Rashomon (1950). Tra gli altri riconoscimenti, da rilevare il primo premio al IX Festival di Mosca (1975), vinto ex aequo con C’eravamo tanto amati di Ettore Scola e La terra della grande promessa di Andrzej Wajda, per avere una traccia sulla produzione di quell’annata felice.
Dersu Uzala è atipico nella filmografia di Kurosawa. I dialoghi essenziali, scarni, la sceneggiatura immersa negli elementi naturali, le riprese prolungate e insistite sul paesaggio che rasentano il genere documentario, le laconiche lezioni impartite dal “buon selvaggio”, la voce narrante fuori campo di Arseniev ne fanno un film poco drammatico eppure coinvolgente. Quando uscì nelle sale (in Italia nel 1977), la sua critica gentile ma profonda al “vivere civile” fece presa rapidamente. Il tema del rapporto conflittuale tra società urbana e natura non era tra i più frequentati e logori, o almeno non quanto lo sia entato oggi.
Possiamo considerare Dersu Uzala una delle colonne del cinema ambientalista solo a patto di non limitarlo a questa facile collocazione, che gli sta troppo stretta. Nello stesso anno 1975, Godfrey Reggio iniziava negli Stati Uniti la produzione di Koyaanisqatsi: Life Out of Balance, critica radicale alle violenze imposte dall’uomo alla natura e a sé stesso, film innovativo che uscirà solo nel 1982 e offrirà un approccio diverso alla stessa questione. Curiosa la successione tra le due pellicole: l’Est del pianeta che passa la staffetta ambientalista all’Ovest, nel tragitto del sole verso il tramonto.
La casa produttrice Mosfilm ha reso disponibile il film su Youtube, con sottotitoli in inglese, bulgaro, spagnolo e turco, in due parti. (link: cinema.mosfilm.ru/films/35297 )