Cría cuervos, “alleva corvi e ti caveranno gli occhi.”

di Greta Boschetto

“Non capisco quelle persone che dicono che l’infanzia è il periodo più felice della vita. Comunque per me non lo è stato davvero, forse è per questo che non credo nel paradiso infantile, né all’innocenza né alla bontà naturale dei bambini. Io ricordo la mia infanzia come un periodo lungo, interminabile, triste, dove la paura dominava tutto, soprattutto la paura dell’incognito.”

Ana

Cría Cuervos è un film del 1976 scritto e diretto da Carlos Saura con Ana Torrent, Geraldine Chaplin, Monica Randall e Héctor Alterio.

Fotografie, sprazzi di passato catturati per sempre, istanti felici spiati dall’album di una vita apparentemente serena ma che estratti dal loro contesto reale ingannano, nascondono abilmente la verità.

Inizia così il film di Saura, con una serie di ricordi di carta fotografica e un primo piano degli occhi di Ana, la protagonista, due profonde fessure nere e vacue che filtrano la realtà insieme alla sua anima in crescita.

Ana è una bambina che vive in una sorta di continua danza tra presente e passato, in un viaggio di formazione intrinseco di simbolismo, anticipato subito in una delle prime sequenze (lei davanti al frigorifero con all’interno svariate zampe di gallina), un sogno vivido della vita prima e dopo la morte dei genitori, con inserti futuri di una se stessa adulta e narratrice interpretata da Geraldine Chaplin, che è anche la madre nei suoi ricordi di figlia.

La storia del film è fatta solo da donne, ambientata quasi interamente all’interno di una grande e cupa casa dai colori sbiaditi, un templio di fantasmi e di menti congelate nel momento del trauma, un’elegia sulla spietatezza e la crudeltà dell’infanzia, quasi sempre superficialmente vista come un periodo dolce e leggero ma qui dipinta come infelice e malinconica.

La Spagna di quegli anni stava cambiando, come la vita di chi ci viveva, e Saura mischia in maniera enigmatica ma chiara la critica psicologica a quella politica: il regime di Franco sta morendo, come l’odiato ed egoista padre fascista della protagonista e delle sue sorelle

Ana vive in un’età di mezzo, ha otto anni, non è ancora abbastanza grande come la sorella maggiore ma non più piccola come quella minore, abbastanza adulta da comprendere il dolore e la sofferenza della madre malata, ma ancora infantile, tanto da credere che sia stata lei l’artefice della morte del padre, visto come unico responsabile del dolore materno, ucciso con i suoi poteri magici grazie a una polverina innocua ma secondo lei stregata.

Il tempo è quello infinito di un’estate a casa da scuola, un periodo ripetitivo ma che in quell’anno cambierà tutto: la nuova convivenza con la fredda zia, la voglia di morire senza ancora sapere cosa davvero significhi la morte se non una mancanza in chi rimane, i litigi tra i genitori ancora intensi nella memoria, la loro scomparsa, il senso di colpa e la voglia di vendetta, i balli giocosi tra sorelle sulle note della canzone “Porque te vas” della cantante Janette (questa canzone non si potrà mai più dimenticare dopo averla ascoltata).

È così che si diventa grandi, soffrendo, ma senza avere ancora la giusta capacità critica dell’analisi.

L’esperienza che viene con gli anni potrebbe portare a rivalutare i fatti passati, a dare spiegazioni facili a lontani ricordi, ma che in realtà sono impossibili da decifrare da adulti, col senno di poi, criptati da un arcano linguaggio segreto di cui ormai si è persa la chiave di lettura.

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