di Antonio Sofia
The Orphanage è il secondo film della regista afghana Shahrbanoo Sadat, nata a Teheran ma formatasi a Kabul negli Ateliers Varan, un’associazione di cineasti francesi attiva da cinquant’anni in tutto il mondo per formare giovani interpreti al racconto cinematografico e documentaristico. La Sadat valica i confini del cinéma vérité già nel suo fortunato esordio, Wolf and the Sheep (2016), componendo un armonioso incastro tra la vita quotidiana dei bambini di una comunità rurale e i racconti del folklore che ne agitano i sogni notturni.
In The Orphanage i bambini sono cresciuti in città: ritroviamo Sediqa e Qodrat quindicenni in un orfanotrofio a Kabul. Se nel primo film la giovinezza si insinua nelle crepe del tempo circolare in cui una piccola comunità si riproduce e conserva, nel suo secondo film la Sadat colloca l’azione in un anno ben preciso: siamo nel 1989, l’anno in cui la Storia doveva trovare conclusione, secondo un illustre storiografo di Chicago.
Nel 1989 avevo 12 anni e mi toccava il ruolo del ragazzino che va bene a scuola in mancanza di altro. Per quanto mi sforzassi di ascoltare gli adulti, seguire giornali e tv, la caduta del Muro si collocava in una dimensione mitica, affine ai cartoni giapponesi che mi riempivano i pomeriggi. Il bene e il male si opponevano e sostenevano reciprocamente, in un equilibrio destinato a sciogliersi a fine serie, a fine storia. Trentuno anni dopo so che non era solo un mio limite, o il limite tecnico di Gō Nagai & co., ma una suggestione diffusa in cui era piacevole immergersi: la democrazia prevaleva sulla dittatura, la libertà sulla polizia di regime. Les jeux sonts faits, alea iacta est, siamo tutti born in the USA.
Nel 1989 a Kabul la Storia, invece, poneva le radici di una nuova stagione, un futuro complesso in cui religione ed economia, potere e nazionalismo avrebbero incrinato la grande illusione (Renoir, 1937).
“Kabul 1989 – Durante il governo filosovietico”, dice una didascalia su Qodrat che si risveglia all’interno di un’automobile abbandonata.
Nell’incipit lo troviamo in una sala cinematografica, dove un pubblico interamente maschile si esalta dinanzi alle proiezioni di una Bollywood catartica. Inserti nel mood del musical indiano scandiranno il racconto del film: le immagini tecniche ipersaturate, hanno un impatto decisivo sulla fantasia del suo protagonista. Qodrat attinge a quei topoi narrativi per comprendere gli eventi che gli accadono, in un rapimento che sviluppa ancora, in altra forma rispetto a Wolf and the Sheep, la forza che ha il racconto di sublimare il desiderio e la morte.
Qodrat è colto in flagrante mentre rivende biglietti del cinema a prezzo maggiorato: in un dialogo con chi l’ha arrestato, ricco di impliciti, più volte sostiene che il suo è un lavoro, non è rubare. Viene condotto in un orfanotrofio in cui sono accolti ragazzi e ragazze che hanno perso la famiglia nel conflitto coi russi e sono costretti a vivere di espedienti per la strada. Nella struttura sono ripuliti, sfamati, educati alla cultura comunista da una bella insegnante russa, ma l’orfanotrofio è sempre in comunicazione con un manicomio: sono una di fianco all’altra, in totale permeabilità, le due istituzioni disciplinari di foucaltiana memoria.
Dal momento in cui accetta di rinunciare a parte della sua libertà, il ragazzino comunque non se la passa male: re-incontra Sediqa, si fa degli amici (e qualche nemico), gioca al fiume, visita Mosca. Riconosce agli adulti una funzione di guida e protezione. In questa zona grigia sta il prezioso lavoro di tessitura della regista: l’adolescenza è un’evoluzione incontenibile, scandita da impulsi, curiosità, idolatrie (Maradona compare nelle figurine di uno dei compagni di Qodrat). La dottrina è diretta a contenere il più possibile l’individualismo, ma la sovrascrittura non è efficace. Ne è esempio il gioco degli scacchi: le partite contro la macchina russa e il prepotente della stanza accanto si risolvono a favore della logica previsione dell’imprevedibile che prevale sulla funzionalità senza immaginazione.
Siamo nel 1989, si diceva, e il crollo dell’URSS è la vittoria dei Mujaheddin, la liberazione dell’Afghanistan.
Il colpo di scena finale è travolgente. La Sadat tira le fila di un’inquietudine che ha introdotto lentamente, spiazza perché sa di poterlo fare: conosce il futuro della sua terra, sa che non troverà pace, anche per l’influenza che il blocco occidentale eserciterà sul suo destino. Il suo film diventa un disperato viaggio nel tempo per fermare il tempo.
”Questo è un orfanotrofio!” urla il supervisore dei ragazzi quando intuisce il precipitare degli eventi.
Rivendica, per Qodrat, Sediqua e gli altri, un essere senza famiglia e senza radici, una condizione ulteriore, non politica, non storica, a cui non si può imporre giudizio, incorruttibile e irrimediabile per l’indottrinamento. Il supervisore, come la regista, ha la percezione di una libertà inesprimibile, compressa e incomprensibile, furiosa e frustrata. Nei corpi lanciati allo scontro, nella ribellione senza parole, le ultime sequenze The Orphanage e Les Misérables (Ladj Ly, 2019) dialogano pur restando distanti: Qodrat e Issa si incontrano in quel territorio sconfinato di ricerca che è il cinema, quando non retrocede alle responsabilità ineludibili del suo racconto potente.
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