di Andrea Lilli

“Correre è vita. Tutto ciò che viene prima o dopo è solo attesa.”
Chissà come correrebbe oggi, novantenne, magari in carrozzella. Nato vicino alla pista di Indianapolis, insofferente alla quiete e ai luoghi chiusi: dalla scuola al riformatorio, dai matrimoni alle ville hollywoodiane, pilota di moto e auto da corsa, figlio di uno stuntman (padre scappato subito), genitore a sua volta di un attore-automobilista sportivo (Chad McQueen), Steve McQueen morì appena cinquantenne, ma non per un incidente. Fu il cuore a fermarlo, 40 anni fa, dopo l’intervento chirurgico su un cancro troppo avanzato. Cremato, le sue ceneri furono disperse in mare.
E sono proprio il mare e la fuga, la sete di libertà che spinge via, al largo, ad innervare le tesissime due ore e mezza di quella che, almeno secondo me, è stata la sua interpretazione più indimenticabile.
Tratto dall’omonimo memoriale di Henri “Papillon” Charrière, fuorilegge incarcerato e fuggito più volte da una colonia penale della Guyana francese, soprannominato così per il tatuaggio sul petto a forma di farfalla, il film Papillon registra anche la prova eccezionale di Dustin Hoffman, degno co-protagonista.Condannato ai lavori forzati e all’ergastolo per un omicidio non commesso, nella nave che lo porta in manette verso l’infernale penitenziario tropicale il ladro Papillon (Steve McQueen) avvicina Louis Dega (Dustin Hoffman), il miglior falsario di Francia. I due imbastiscono in quella bolgia un rapporto di fiducia reciproca finalizzato anzitutto alla mutua assistenza e difesa, e poi ad un piano di fuga.
I detenuti vengono accolti da questo saluto: Benvenuti. Da qui non c’è modo di scappare. Il primo tentativo di evasione aggiunge due anni alla pena già in corso. Il secondo, altri cinque. Le colpe più gravi sono punite così (viene fatta calare la ghigliottina). Fate buon viso a quello che vi offriamo, e soffrirete meno di quel che dovreste.
Di ogni carico di condannati sbarcati nella colonia penale, il 40% muore durante il primo anno di detenzione. Oltre alla malaria incombono il suicidio, la malnutrizione, il sadismo e il marciume delle guardie. Louis Dega all’inizio si mostra distaccato e ottimista: spera nell’aiuto esterno della moglie, che gli ha promesso ogni sforzo economico per tirarlo fuori; ma poi dovrà aprire gli occhi e chiedere a Papillon – proteso verso la fuga con qualunque mezzo, dal primo giorno – di portarlo con sé quando proverà a scappare. Naturalmente i primi tentativi falliscono, ma almeno servono a saldare una solidarietà forte e amichevole. Papillon sconta sia i due anni di isolamento per la prima scrollata, che i cinque della seconda. Non si fa mancare nulla, nemmeno una visita ‘toccante’ all’isola dei lebbrosi e un periodo felice di pace&amore insieme agli indigeni di una tribù, tra un inseguimento e una cella di rigore.
Questa, durissima, e l’esperienza delle umane miserie, cattiverie e cecità, compreso il tradimento di una subdola quanto pia madre superiora, nel cui convento aveva chiesto ospitalità, riducono Papillon a uno zombie, sopravvissuto solo grazie al suo bisogno primario di riscatto e ad una volontà di ferro.
Ecco perché nessun altro nel ruolo si sarebbe immedesimato meglio di McQuinn: nella vita reale Steve, che non aveva finito le scuole elementari, venne arrestato a 15 anni per furto; passò 14 mesi in riformatorio, malgrado cinque tentativi di fuga. Uscito, prima di imparare il mestiere dell’attore ne accettò una lunga serie di altri: marinaio su un mercantile, operaio portuale, giocatore di poker, meccanico, volontario nei Marines, muratore, autista di taxi, fattorino… E ovviamente automobilista sportivo.
Un uomo senza pace ma taciturno; un attore inquieto capace di saggezza distaccata come di slanci eroici, di salti mortali come di freddure umoristiche. Con una predilezione per le evasioni, vedi La grande fuga (Sturges, 1963), per le corse disperate verso la salvezza, vedi L’inferno di cristallo (Guillermin, 1974), per ogni tipo di corsa. Qui sta il fascino del King of Cool, come Steve McQuinn venne definito. Nelle situazioni estreme, lo sguardo di chi ha tanto vissuto spesso parla meglio della sua lingua: molti primi piani muti di Papillon sono più eloquenti dei dialoghi.
Una scena particolarmente ispirata: il sogno che fa Papillon abbandonato per anni a se stesso, in isolamento. Vedendosi come un morto che parla, riflette così sulla sua vita: Io ti accuso di un crimine più grave dell’omicidio: di avere sciupato la tua vita. Di questo sei colpevole, e la condanna per questo crimine è la morte.
Di questo film va notata la sorprendente rapidità con cui scorre: 150 minuti che non stancano, che incatenano allo schermo e galoppano veloci, anziché trottare al solito passo. Come se l’ansia di scappare di Papillon/Steve McQuinn contagiasse immediatamente lo spettatore, che diminuisce o dimentica tutto ciò di cui, dopo, si dovrà occupare. E non essendo l’agenda più così importante, non si fa più caso al tempo che manca per tornare a pensarci.
Finito l’isolamento, Papillon viene trasferito per il suo ergastolo in una casetta all’Isola del Diavolo, uno scoglio impervio da cui sembra impossibile scappare: oceano e pescecani fanno buona guardia. Là ritrova Louis Dago, come lui invecchiato nel fisico e nello spirito. Anzi, più di lui.
Louis è intristito dalla solitudine, ha saputo che anche la moglie lo ha abbandonato, coltiva il suo orticello, pesca i gamberi, è moderatamente rimbambito, vede fantasmi, e si sta adattando a finire lì i suoi giorni. Sa che il nuovo vicino, il buon vecchio Papillon che lo ha protetto e non lo ha mai tradito, è l’unico suo amico possibile, ma sa pure che non lo sarà a lungo. Già Papillon studia il mare, le correnti del terribile oceano che assedia l’isola per 24 miglia prima del continente: avrà pure il suo punto debole, il varco che trasformi quel muro in ponte verso la libertà, verso una vita nuova. Nella sequenza più commovente i due si salutano abbracciati come fratelli: uno si getta con la sua zattera per l’ennesimo, insopprimibile tentativo. L’altro resta sul terreno sicuro della rassegnazione.
Nel 2017 il regista Michael Noer ha fatto uscire inutilmente un altro Papillon, che rivisita il libro di Charrière. Un’occasione sprecata per dedicarsi ad altro.
“Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”
Film disponibile QUI su RaiPlay

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