di Laura Pozzi

Non si esce vivi dagli anni ’80, così recitava un vecchio brano degli Afterhours. In verità (per chi c’era) prima o poi se ne esce anche se incredibilmente malconci e perdutamente nostalgici. 9 settimane e ½ è un film che ad ogni nuova visione regala e irrobustisce con sottile ironia una certezza: siamo al cospetto di un cinema che non c’è più. Un cinema che poteva permettersi il lusso di snobbare biopic, remake e universi marvel monopolizzando l’attenzione di cinefili e semplici spettatori attraverso lo svelamento di quel lato frivolo, apparente e autenticamente superficiale, ma assolutamente attento ad intrattenere con astuzia e intelligenza. Adrian Lyne è stato uno dei registi più rappresentativi di quel periodo, poco amato dalla critica ma indubbiamente abile nel far quadrare i conti al botteghino a colpi di proposte indecenti, attrazioni fatali, allucinazioni perverse e Lolite stroncate sul nascere. Tuttavia la sua discussa filmografia si arresta nel lontano 2002 con Unfaithful – L’amore infedele. Un silenzio allarmante e un destino che beffardamente lo accomuna ai compianti Alan Parker e Joel Schumacher, registi molto diversi fra loro, ma ugualmente costretti a un lungo periodo di inattività reso fatale dalla morte di entrambi, avvenuta a poche settimane di distanza. Qualcosa suggerisce che lo stesso destino potrebbe toccare a Lyne, classe 1941 e allora, prima di tardive e calcolate (ri)abilitazioni di facciata, è il caso di soffermarsi per un momento sull’opera di un autore (termine che farà sicuramente storcere il naso) per certi versi irripetibile.

Irripetibile come questo film, realizzato dopo un’altra opera culto come Flashdance e uscito in sordina nelle sale americane nel febbraio del 1986. Gli incassi iniziali si aggirano sui 7 milioni di dollari e la critica si tiene alla larga da facili entusiasmi. Grazie al passaparola e ad una massiccia circolazione in formato video il film diviene in breve tempo un vero e proprio “caso”. In Italia si grida allo scandalo, la censura si mobilita, i divieti cominciano a dare letteralmente i numeri, mentre gli spericolati e trasgressivi giochi erotici tra Kim Basinger e Mickey Rourke riempiono le sale. Di colpo Lyne si trasforma in una gallina dalle uova d’oro e i due interpreti, inizialmente sconosciuti, irrompono sullo schermo con sensuale magnetismo acquisendo il pericoloso e fatiscente status di sex symbol. Una condizione che perdurerà alcuni anni, fino a quando l’irrequieto e impossibilitato ad essere normale Mickey Rourke deciderà di darci un taglio, dedicandosi alla boxe e picchiando duro su quell’immagine che non lo gratifica e non lo rappresenta. Riuscirà definitivamente a scrollarsi di dosso quelle nove settimane solo nel 2008 con The Wrestler, film dolorosissimo in cui appare irriconoscibile, ma (forse) finalmente in pace con se stesso. Per la bionda Kim il futuro sarà meno tenebroso, grazie all’Oscar ottenuto per L.A Confidential riuscirà ad avere il suo momento di gloria conquistando i più scettici.

9 settimane e ½ è un film quasi banale nel voler tracciare gli istinti repressi di due personaggi apparentemente realizzati, ma in preda ad una profonda deriva interiore. Elisabeth è una giovane gallerista divorziata comprensibilmente annoiata che un bel giorno incrocia lo sguardo e il ghigno satanico di John, un laconico ma stilosissimo agente di borsa. I due intraprendono una relazione sulla scia di un patinato Ultimo tango a Parigi, basata sul non detto e sulla pratica di giochini erotici sempre più dissoluti, padroneggiati con maestria dall’uomo. Se all’inizio il divertissement è eccitante, a lungo andare rivela tutta la sua vacuità e il suo pericoloso nonsense. Elisabeth, per quanto ne senta il bisogno, non riesce a recidere i fili tesi da quell’insidioso ma seducente burattinaio che per sfuggire ad una monotona e grigia esistenza trasforma la donna in una bambola da maneggiare a piacimento. Ma dopo 9 settimane e ½, decide di chiudere la storia lasciando John perso nel rimpianto di una drammatica conta finale che non gli restituirà l’amante perduta.

Drammaturgicamente parlando il film mostra qualche pecca dovuta anche alla versione rimaneggiata, ancora oggi l’unica fruibile. Lo stesso Lyne in passato ha più volte parlato di una possibile versione director’s cut, impreziosita da innumerevoli scene tagliate, ma il progetto per una durata complessiva di oltre tre ore non ha mai trovato riscontro. Nonostante ciò il film tiene fede e mantiene negli anni la sua peculiarità, che va ben oltre uno script debole, ma accattivante e due interpreti colti nel momento di massimo splendore. Il regista compensa le lacune di una storia sempre sul punto di affondare nel facile voyerismo grazie a due coprotagoniste d’eccezione: New York e una soundtrack da capogiro. La grande mela con il suo caos metropolitano e la sua brulicante vitalità elargisce fascino da tutti i pori sprigionando un’energia quasi animalesca. D’altra parte siamo in piena era MTV, il videoclip diviene il mezzo più rapido per veicolare un messaggio e rendere “danzante” una pellicola. Lyne ne aveva già dato prova in Flashdance, dove le prove ballerine di Jennifer Beals sulle note di Maniac trasformavano per noi comuni mortali un’ anonima sessione in palestra in esperienza cinematografica. Qui ad ufficializzare il nuovo linguaggio ci pensa Joe Cocker, che con You can leave your hat on consegna alla storia non uno spogliarello, ma lo spogliarello. Tutto il film è costantemente accompagnato dalla musica, tanto che si potrebbe gustarlo stando in piedi, al pari di un concerto, muovendosi sinuosamente al ritmo di brani indimenticabili (Bryan Ferry, Corey Hart, Eurythmics, Luba, Stewart Copeland, Devo). Il regista permea di sottile erotismo ogni singola inquadratura, lasciando emergere le debolezze di una donna incantata, ma non completamente stregata. Liz, alle volte quasi irritante nel suo essere esageratamente accomodante e sottomessa, è la sola in grado di far calare il sipario su quel febbrile delirio a due. Tutti i personaggi femminili di Lyne nascondono dietro un’apparenza fragile e distorta, una forza di volontà capace di ribaltare situazioni seriamente compromesse. A volte sono donne istintive e peccaminose, ma sanno perfettamente quando è giunto il momento di arretrare. Un film di Adrian Lyne si riconosce subito, per questo non è azzardato parlare di un autore cinematografico che non verrà mai inserito e studiato nelle scuole, ma che come pochi ha saputo dar lustro e rispecchiare nelle sue ataviche contraddizioni un decennio ancora oggi fra i più rimpianti. E quell’ultimo sguardo finale di Elisabeth che mentre si allontana saluta definitivamente il suo John, rivisto oggi suona come un amaro commiato verso un cinema necessario presente solo nei ricordi.
