di Marzia Procopio
«A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”. Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.».

Così si presenta il protagonista del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, scritto dal regista insieme a Umberto Contarello. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2013, dove fu accolto piuttosto freddamente, vinse tra i molti riconoscimenti anche il Premio Oscar come Miglior film straniero nel 2014, quattro European Film Awards, nove David di Donatello (su 18 nomination), cinque Nastri d’Argento.

Aggiungere qualcosa a quanto abbondantemente detto all’uscita del film è piuttosto difficile; semplicemente, è un film che parla di tutto e di niente. Di ‘tutto’, perché dura più di due ore nella versione tagliata, ed è il racconto della vita mondana di una teoria di personaggi disparati e disperati osservati impietosamente dagli occhi del protagonista, che attraversa, condividendo con lo spettatore le sue riflessioni, una ‘Babilonia disperata’ (così la definì Natalia Aspesi) e partecipa a feste in cui tutti si annoiano; di ‘niente’ perché nulla accade, nella società che Jep frequenta, e la bellezza sontuosa di una Roma immortalata da immagini ‘lucidate’ di luoghi noti e meno noti sembra rimandare al vuoto anziché al pieno.

Un film complesso, enigmatico, divisivo, che per la struttura e la perfezione tecnica interrogò fin da subito critica e pubblico chiedendo che cosa, in una città di straziante bellezza che fa da palcoscenico al vuoto di significato degli eventi e dei personaggi, ci sia di autentico e realmente vivo. La risposta sembra essere nelle riflessioni stesse di Jep, esteta ormai al tramonto che guarda la città e la “fauna” che la abita con un certo stanco disgusto, in una via crucis compiaciuta e vagamente onirica nella quale vediamo attraverso i suoi sensi stanze di palazzi segreti, opere d’arte, giardini e musica lirica: riflessioni sulla vita degna di essere vissuta, compresa ex contrario dalla vacuità di quella subita fino ai sessantacinque anni.

«Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito “il vortice della mondanità”. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire», dice di sé, durante una delle sue passeggiate all’alba dopo la festa per il suo sessantacinquesimo compleanno, questo signore del jet-set romano, noto e ricco giornalista di costume e critico teatrale, autore di un apprezzato romanzo d’esordio dal titolo L’apparato umano, iniziando un inedito percorso per le vie della città e della sua anima. L’uomo non ha più scritto libri, apparentemente per pigrizia, in verità per un blocco creativo da cui non riesce a uscire. Nel buco nero culturale della Roma contemporanea, sineddoche dell’Italia o più probabilmente del mondo occidentale, in un trionfo di cafonaggine che sembra allignare nel berlusconismo – il suo attico con vista sul Colosseo ricorda l’appartamento di Scajola, che ne ebbe in dono uno simile a sua insaputa – tra feste alcoliche frequentate dai ‘nuovi mostri’ – ultracinquantenni che si dimenano e si strusciano in pista come dei ragazzi e spendono in botulino cifre considerevoli – e conversazioni di una banalità assoluta nei salotti della Roma bene, Jep sferza sarcastico personaggi ipocriti e superficiali fra cui si salvano solo la spogliarellista Ramona, che custodisce un doloroso segreto, e uno scrittore teatrale fallito, Romano, deluso dagli inganni di Roma e da una donna che lo sfrutta, rispettivamente interpretati da Sabrina Ferilli e Carlo Verdone in ruoli inediti ed emozionanti. Ma Ramona e Romano (il curioso ricorrere delle vocali rimanderà alla loro somiglianza?), i soli con cui l’uomo ha un rapporto autentico e affettuoso, se ne andranno, insieme alla speranza di Jep di trovare, attraverso la relazione con gli altri, un senso alla sua vita; arriva infine l’incontro (voluto dalla direttrice del suo giornale, Dadina, che vuole ottenere un’intervista) con ‘ la santa’, una missionaria cattolica in Africa, una donna vecchissima che si scolpisce negli occhi dello spettatore per la sua decrepitezza, corpo e viso che anticipano l’estremo ghigno della morte. Dopo l’esortazione della ‘santa’ a cercare la bellezza nelle radici, il giornalista capisce che è arrivato il momento di ritrovare l’ispirazione e scrivere un nuovo romanzo.

Tutto, ne La grande bellezza, parla di morte, fin dalla scena iniziale. I temi del film la richiamano sotto diversi aspetti: il tempo che ci lasciamo sfuggire in vacue attività; l’offensivo, scandaloso sfarzo del clero; l’arte vera e sedicente tale (Talia Concept rimanda ironicamente alla performer Marina Abramovic); il sesso come falsa vicinanza e comunione, le relazioni sociali superficiali e angoscianti nelle lussuose situazioni mondane della Roma d’élite (?). Anche la perdita di ispirazione di Jep, il suo blocco dello scrittore sono la conseguenza della crisi di valori di un intero mondo, non solo romano, perché il cinismo volgare può produrre soltanto gossip, cioè la morte di ogni ambizione letteraria: ecco quindi l’afasia di Jep, cui fa da contraltare il costante profluvio di parole degli altri, desiderosi di nascondere dietro un fiume di inutili, tristi battute il proprio fallimento esistenziale. Serpeggia l’angoscia, che è angoscia di morte anche là dove si intravede l’amore, nonostante il (o forse in virtù del) virtuosismo esibito della macchina da presa. Sorrentino scava alla ricerca della vita rappresentando la morte e girando un film per certi aspetti pesante, in cui la tendenza all’accumulo barocco, il gusto per le immagini ieratiche e la lenta analisi dell’animo umano servono a svelare, attraverso lo sguardo deformante e contemporaneamente umano di Jep, quella realtà che è l’oggetto vero del racconto.

Si comprende così il senso della citazione iniziale di Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, chiave di lettura introduttiva per il ‘viaggio’ di Jep: «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato, è un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.». E forse qui è contenuto il messaggio ultimo del film: come si riconoscono la vera arte e la vera poesia, come si ritrova una sincera spiritualità quando gli stessi artisti, gli stessi ecclesiastici sembrano aver perduto i valori che originariamente li avevano ispirati e sostenuti? Solo la ‘Santa’ sembra aver trovato la Bellezza che salva dalla morte dell’anima, proprio quella che il protagonista sta cercando. Ma sarà poi vero o non si tratta anche in questo caso di immaginazione? “Cercavo la grande bellezza… ma non l’ho trovata.”

Complimenti, bella recensione. Non ho visto il film, ma al di là della mia ritrosia iniziale, mi spingi a vederlo. Buona domenica.
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