È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino (2021)

di Roberta Lamonica

🛑 Contiene anticipazioni

La vita è realtà e la realtà è scadente”

Il prossimo 8 febbraio 2022 sarà resa nota la cinquina di film che si contenderanno l’Oscar per il miglior film internazionale. A rappresentare l’Italia, “È stata la mano di Dio”, di Paolo Sorrentino, già Gran Premio della Giuria alla 78esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e pronto a sbarcare il prossimo 15 dicembre sul gigante dell’intrattenimento televisivo Netflix.

E' stata la mano di Dio| re-movies
Locandina

Premessa

All’uscita di C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, molti estimatori del cinema del regista di Knoxville hanno parlato del film come del “meno tarantiniano dei film di Tarantino”, per una velata malinconia di fondo, un’atmosfera vagamente elegiaca, il sapore dolce amaro della fine di un mondo e di un percorso artistico personale. Allo stesso modo, alcuni degli estimatori di Paolo Sorrentino potranno restare ‘delusi’ da questa ultima fatica del regista partenopeo perché È stata la mano di Dio è sicuramente il suo film meno ‘sorrentiniano’. E ciò essenzialmente perché stavolta Sorrentino non si nasconde dietro il barocchismo di movimenti di macchina arditi e sinuosi e messe in scena spettacolari, dialoghi ad effetto e apparizioni improbabili; o meglio, ci sono anche quelli, ma ci sono soprattutto una sensibilità poetica, un respiro artistico e un’onestà di fondo che lasciano tutto il resto sullo sfondo, travolgendo lo spettatore in un’esperienza di condivisione ed empatia raramente viste al cinema negli ultimi tempi.

Dopo l’esordio folgorante con L’uomo in più (2001), Paolo Sorrentino non aveva più girato nella sua città. Lo fa con questo E’ stata la mano di Dio in cui il regista sembra voler chiudere i conti con un’emotività e un’urgenza di verità inespresse (forse perché inesprimibili) dopo un’indagine introspettiva durata 20 anni, mettendosi a nudo con il suo pubblico, omaggiando i suoi riferimenti artistici e culturali e la città in cui tutto ha avuto inizio e dove tutto deve finire, per potersi forse muovere verso altri orizzonti artistici e narrativi.

L’auto di S.Gennaro

SINOSSI di È stata la mano di Dio

E’ l’alba a Napoli e una macchina d’epoca, lenta come un carro funebre con un silenzioso e invisibile corteo, percorre il lungomare deserto. In un intermezzo de L’oro di Napoli film del 1954 di Vittorio De Sica, la madre addolorata di un bimbo defunto seguiva un carro funebre, fuori dal tempo in una città già ‘moderna’, donando caramelle agli scugnizzi che, indifferenti a quel dolore ed eccitati, si azzuffavano per prenderle. De Sica aveva colto con pochi sapienti tocchi una delle caratteristiche principali dell’ anima di Napoli, e cioè la sua interminabile partita a scacchi con la morte, al contempo derisa e venerata, scongiurata e celebrata. L’auto che attraversa la città addormentata con cui si apre E’ stata la mano di Dio, ricorda il carro funebre del film di De Sica: come quello sembra portatrice di un presagio oscuro, di un evento funesto, comunque di un alone di mistero.

L’uomo appeso sul set nella Galleria Umberto I

Allo stesso modo l’uomo appeso a testa in giù sul set del film che il protagonista visiterà per ben due volte (cameo del regista stesso), sembra rimandare alla figura dell’Appeso nei tarocchi. L’Appeso indica solitamente una prova inevitabile, che richiede sacrifici personali per raggiungere l’elevazione spirituale. In genere, tale prova è sempre dolorosa: può essere una perdita, in senso fisico, psicologico e spirituale. Ecco, l’elemento magico e inconoscibile, il mistero della vita e della morte, attraversano tutta la filmografia di Sorrentino ma qui sono quanto mai tangibili, condizionando e contribuendo in modo determinante alla formazione e al carattere del giovane protagonista,

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Fabio in motorino con Maria e Saverio

Fabietto Schisa (Filippo Scotti), capelli arruffati e walkman sempre con sé, deve passare attraverso l’esperienza della morte per rinascere come Fabio. Non deve ‘disunirsi’ e deve imparare a dire almeno una cosa, almeno una. È così difficile farlo, per lui sempre un po’ in disparte, quasi invisibile, lì a osservare come tutto ciò che inizia, nella sua vita, venga sempre in qualche modo interrotto bruscamente. Ma alla fine la dice una cosa, a quello spirito indomito incarnato dal regista Capuano – alter ego del Paolo Sorrentino regista – che lo incalza e lo costringe a risvegliarsi e reagire: “Non me li hanno fatti vedere”. Grida il suo dolore irrisolto, Fabio – il Sorrentino ragazzo – in un dialogo tra l’identità del fanciullo ferito e quella dell’adulto rabbioso, Guardiano della Soglia nell’antro della sua interiorità. La conciliazione avviene ancora una volta nel blu del mare di Napoli, in un tuffo che chiude finalmente i conti con il passato, mentre il futuro è lì, da afferrare con determinazione, forse lontano. Ma mai troppo e mai davvero.

Marlon Joubert e Filippo Scotti

Una famiglia felice, la madre giocosa e il padre brillante (meravigliosi Teresa Saponangelo e Toni Servillo), un fischio di intesa – cardellini in amore sul ramo più in alto dell’albero della vita – un fratello che lo adora, tanti parenti esagerati, chiassosi, sfacciati, ma mai davvero volgari. E poi la zia Patrizia (Luisa Ranieri, bella come mai), “pazza e puttana”, come ripete spesso lo zio Franco (Massimiliano Gallo). Semplicemente perfetta, per Fabio. E poi il condominio: la famiglia altoatesina e la baronessa decaduta, il figlio del portiere (Lino Musella) che disegna falli sulle placche d’ottone delle porte ma anche sullo specchio dell’ascensore per far ridere Maria… Che donna meravigliosa Maria, madre di tutti, anche di suo marito. Madre dal profumo di buono e di casa, di amore e sacrificio, spiritello domestico giocoso e dispettoso, centro di gravità di esistenze normali in una città speciale. Si va al mare, ci si ‘sfotte’, ci si vuol bene nella famiglia Schisa. Ci si perdonano le fragilità e i difetti. E si parla… bla, bla, bla.

Poi, ci si addormenta su un libro appena iniziato di Oriana Fallaci e su un lavoro a maglia, anch’esso appena iniziato. Ci si addormenta prima di vedere C’era una volta in America tutti insieme, prima di festeggiare lo scudetto del Napoli. Ci si addormenta per sempre. E l’orso che ha cullato gli scherzi giocosi di Maria, le battute argute di Saverio e l’adolescenza di Fabietto spariscono dietro i vetri di una casetta silenziosa e potenzialmente pacificatrice a Roccaraso. Eh sì, “la realtà è terribilmente deludente“, come dice lo zio Alfredo (Renato Carpentieri) e se non fosse stato per il profeta argentino, La mano di Dio, quel giorno invece che sugli spalti del San Paolo, anche Fabietto sarebbe caduto in un sonno mortale sulle montagne del Abruzzo.

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Fabio e Capuano

NAPOLI

Alla magnificenza decadente e soverchiante della Città Eterna, alla folla di anime perse che abitano i suoi palazzi e succhiano la sua anima, Sorrentino oppone stavolta il mare di Napoli. Napoli, la Città di Pulcinella come siamo abituati a vederla rappresentata nella musica e nel cinema, qui non c’è, non trova spazio. La città magica, che ti può respingere oppure al contrario, abbracciare con le sue bellezze umane e culturali è rappresentata come un velo delicato e trasparente. Napoli qui è le luci che illuminano i quartieri eleganti visti dal mare, i vicoli ammantati di fascino stratificato e di mistero mai svelato, le vita brulicante di sottofondo. Sì, ci sono i contrabbandieri sguaiati che sfuggono alla legge, risse familiari e motorini senza casco, il Vesuvio sullo sfondo e le mozzarelle che ‘ccacciano o’ llatt’. Ma Napoli è lontana dalle contraddizioni e dalle complesse dinamiche sociali e politiche che la definiscono da sempre. Napoli qui è soprattutto il mare. Il mare che riempie lo schermo di blu all’inizio del film, che fa “tuuuf, tuuf, tuuf”; il mare in cui immergersi, morire e rinascere. Il mare che profuma di ricordi e momenti felici. Il mare che si asciuga sul corpo meraviglioso di Patrizia, divinità inaccessibile…musa bellissima, triste e sola.

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La signora Gentile

SORRENTINO E I SUOI TOPOI

C’è tutto il Sorrentino che abbiamo imparato a conoscere e ad amare (o magari anche no) in È stata la mano di Dio. Ci sono lampadari scintillanti appoggiati su pavimenti crepati, memento di impermanenza e caducità della bellezza; ci sono animali che si palesano decontestualizzati. Ci sono personaggi che incarnano il dolore del mondo: la suor Maria de La grande Bellezza assume qui, per i pochi fotogrammi in cui non è chiusa dietro la porta del bagno di casa, il volto spaventato, interrogativo e sbalordito della sorella di Fabietto, unica cui non è dato intraprendere un percorso di elaborazione del lutto, detentrice dei segreti ed eterna vestale di un momento di sofferenza assoluto e cristallizzato per sempre nella storia della sua famiglia, mentre per contrasto la città vive un momento di gioia assoluto – la vittoria dello scudetto – cristallizzato per sempre nella sua storia.

Una scena di È stata la Mano di Dio

Ci sono personaggi grotteschi, improbabili, caricature uscite da ricordi di infanzia e da racconti ascoltati dai grandi. C’è la cultura, la ricerca di un Virgilio che conduca Dante nell’Oltretomba; c’è la demistificazione del sacro che appare fin dalle primissime scene del film quando un San Gennaro gagà e luciferino (Enzo De Caro, con cui nel 1991 Paolo Sorrentino lavorò sul set di Ladri di futuro) tocca il sedere di Patrizia. C’è Dio… nella mano di Maradona, idolo venerato e atteso, risolutore di crisi familiari e vendicatore dei soprusi sul popolo, esempio assoluto di perseveranza, quella qualità che consente a ognuno di diventare ciò che vuole. Fabietto osserva e costruisce la sua visione del mondo, fondata sulla capacità di guardare la bellezza dove gli altri vedono solo volgarità, nutrito dall’amore di chi lo vuole libero dagli affanni della vita e con il cuore e gli occhi spalancati di stupore all’accoglienza. Centrale è a tal proposito la figura della Signora Gentile, la matriarca in pelliccia che mangia mozzarella e oppone la sua resistenza alla realtà fatta di bla bla bla attraverso un silenzio rotto solo da una forma di reiterato turpiloquio, salvo poi donare la ‘gentilezza’ della sua anima solo a chi sa avere le qualità per vederla.

Filippo Scotti

E ancora il contrabbandiere sguaiato e attaccabrighe che regala una notte di visioni e cieli illuminati di rosso a un Fabietto solo e disperato. E a quella disperazione cerca di porre rimedio la baronessa Focale, che prova a lenire la sofferenza di Fabio iniziandolo al sesso, nella sua casa che sembra una cripta, un luogo di morte. Il rapporto con lei è un atto unico, irripetibile, come la morte. Fabio esperisce la morte del suo sé bambino e compie il primo passo verso il suo sé adulto, che completerà con la partenza da Napoli, appunto. La morte ‘non gliela hanno fatta vedere’. Lui, Fabio/Sorrentino, va oltre ma lo spettatore ha la sensazione che l’incontro con la morte non sia mai davvero risolto. Ecco perché il regista partenopeo la inscena e la fa incarnare nei personaggi centrali delle sue opere, senza che la si ‘veda’ mai veramente.

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La famiglia Schisa

GLI OMAGGI in È stata la mano di Dio

Un saluto dal balcone, una zuppa di latte, ed è subito Eduardo. Tanti gli omaggi nel film di Sorrentino. Omaggi trasparenti e generosi, fondamenta su cui il cineasta premio Oscar ha costruito una poetica e un gusto personali e riconoscibili. L’incipit con le auto in coda come in 8 e ½, le figure distorte e deformate dal ricordo, gigantesche o lillipuziane a seconda dell’elaborazione della memoria; l’Amarcord, le foto e la voce del maestro riminese durante un’audizione, perché, come ha detto a suo fratello “la vita è realtà, e la realtà è scadente”. L’omaggio a Troisi nello sguardo sempre un po’ sornione di Fabio, nell’andatura dinoccolata e sghemba, nella sua costante attenzione all’ascolto, nel motorino come la bicicletta de Il Postino, nell’abbandono di Napoli che diventa l’unica possibilità di mettersi a fuoco, come per il Gaetano di Ricomincio da tre. Quasi completamente assente la musica dal questo film così intenso, meravigliosamente imperfetto e personale. Non è dato ascoltare la musica che Fabietto ascolta, quasi fosse un’estensione della sua interiorità. Eppure, nell’ultima inquadratura irrompe l’omaggio a Pino Daniele, la cui Napul’è chiude il film, la canzone d’amore più emozionante mai scritta per questa città troppo bella e inaccessibile per essere davvero compresa fino in fondo. Come Fabietto, come Patrizia, in qualche modo due esclusi.

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Fabietto e Patrizia

FABIETTO E PATRIZIA

Solo i pazzi e gli artisti vedono il munaciello e hanno accesso alla porta segreta che separa il visibile dall’invisibile, il vero dal falso, la realtà dalla fantasia. “Io ti ho sempre creduto”, dice Fabietto a Patrizia, rinchiusa in un manicomio. E Patrizia lo sa perché lo ha guardato quando era sull’orlo del precipizio e sa che lui l’ha capita. È per questo che quando Fabietto è diventato Fabio e sta per lasciare Napoli, la sua adolescenza e il suo vissuto di dolore indicibile, Patrizia gli lancia una pila dalle sbarre della sua prigione fisica. La pila che ha tacitato il grottesco e deforme bla bla bla, la pila che ha spento il vuoto mulinare di parole nella perfezione del silenzio. Si può lasciare il passato nel cuore, ascoltare il silenzio e promettere che un giorno si farà un film bellissimo sulla propria gioventù, sul proprio intimo dolore e sulla propria città mettendosi a nudo e donandosi al proprio pubblico, quasi chiedendo scusa se a volte non si è riusciti a farsi voler bene.

Filippo Scotti

3 risposte a "È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino (2021)"

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