di Bruno Ciccaglione

I’ll be your mirror
Reflects what you are
In case you don’t know
(I’ll be your mirror, Velvet Underground, 1966)
Travestito da film di fantascienza, con gli alieni cattivi venuti ad uccidere gli esseri umani, Under the skin è una riflessione sottile sulla condizione umana, scoperta e sperimentata nelle sue sfaccettature dalla protagonista, una creatura extraterrestre interpretata da una Scarlett Johannson sorprendente, che attraversa il film mostrandoci diversi modi del suo stare nel mondo: all’inizio è il cinico strumento di un piano di cui noi spettatori umani cogliamo solo alcuni tratti superficiali; poi è la mangiatrice di uomini, sedotti con un erotismo sbarazzino, freddo, ma estremamente provocante; infine, quando cede alla curiosità di sperimentare davvero la condizione umana, pagherà cara la propria umanizzazione.
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Il terzo lungometraggio di Johnathan Glazer aveva suscitato grandi aspettative, ma alla fine non ha ottenuto un riscontro commerciale significativo. L’atmosfera del film è a tratti estraniante, con pochissimi dialoghi, l’umorismo è sottile, nero e ricco di elementi al limite dell’assurdo, l’erotismo è inseparabile dal senso di pericolo e di paura con cui la protagonista lo colora, la musica minimalista di Mica Levi aggiunge un tocco davvero inquietante al tutto. Tutti questi elementi hanno forse allontanato il grande pubblico, ma concorrono a dare al film un carattere originale e intrigante. D’altra parte Glazer riesce a trovare un equilibrio tra due modi diversi di fare cinema.

Da un lato ci sono infatti le immagini bellissime di un mondo sospeso, freddo e minaccioso, che caratterizzano le scene di fantascienza girate in studio – si pensi alla scena iniziale della “nascita”, in cui Laura (Scarlett Johansson) prende i vestiti dalla donna paralizzata sul pavimento bianco e luminoso, che ricorda alcuni momenti di 2001: Odissea nello spazio, o alle scene in cui le vittime da lei catturate vengono ingoiate nel gorgo di un mare nero, che sembra uno specchio, e sulla cui superficie Laura cammina, splendidamente incurante dalla loro sorte.

Dall’altro ci sono tutte le scene di “caccia”, girate come un documentario per le strade di Glasgow: Laura si aggira per la città in un furgone bianco, alla ricerca di uomini da abbordare e da portare poi nella sua casa degli orrori. Tutte queste sequenze sono state girate portando Scarlett Johansson in mezzo alla folla, per la città o all’uscita dello stadio del Celtic, con i passanti filmati da una miriade di telecamere nascoste e la star hollywoodiana che li ferma, li interroga, mentre loro sono ignari di essere filmati. In questo modo la Johansson era in un certo senso davvero una extraterrestre, mentre si trovava tra la folla delle strade di Glasgow (dai titoli di coda si scopre che per questo motivo c’era una squadra addetta alla sua sicurezza pronta ad intervenire in ogni momento).

I piani di cui la creatura extraterrestre è l’esecutrice restano per lo più oscuri, almeno nel loro disegno complessivo, mentre è chiaro quel che a Laura è richiesto: adescare ed eliminare gli uomini. Il fatto che una creatura aliena indossi i panni di una donna, la pone immediatamente in relazione alla condizione femminile, ma da una prospettiva libera da ogni condizionamento culturale.
Laura è uno specchio che riflette quel che siamo, e particolarmente il modo in cui i maschi si relazionano alla donna: la maggior parte la considera un mero oggetto sessuale e per la prima parte del film questa è la sola tipologia di uomini che Laura incontra e dei quali non avrà alcuna pietà. Nel gioco di specchi su cui è costruito il film, il mare nero in cui fa precipitare questi maschi eccitati per poi spolparli (e forse ricavare la pelle da riutilizzare per altre creature aliene?) è appunto uno specchio che restituisce l’immagine di Laura, che cammina sopra questa superficie nera e riflettente, mentre i maschi ci affondano dentro.

Lo specchio, ancora, sembra provocare una crisi in Laura: la percezione e la scoperta della propria immagine la cambia e per la prima volta, durante una sua missione omicida, prova pietà per una delle sue vittime e la risparmia. Si tratta, ed anche qui la scelta di Glazer è coraggiosa, di un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia che deforma violentemente i tratti somatici, interpretato da un noto conduttore televisivo e attivista britannico, Adam Pearson, affetto effettivamente da questa patologia e molto impegnato in campagne contro il bullismo associato alle deformità. Il ragazzo deforme è diverso dagli altri, ha timore della donna, è molto riluttante a seguirla, mostra una fragilità che nessun altro uomo entrato in contatto con lei le aveva mostrato.

Il fatto che Laura mostri per lui una pietà che nessun’altra vittima aveva suscitato è il segno di un primo passo verso la sua umanizzazione. E infatti Laura fugge, sottraendosi al controllo degli alieni da cui veniva diretta, e cerca di trovare un altro modo di stare al mondo. È la parte più affascinante e anche ironica del film: la scoperta del sé, la curiosità di sperimentare con il proprio corpo, impararne le caratteristiche e le potenzialità.

Memorabile la scena in cui Laura, di nuovo davanti ad uno specchio, osserva e scopre le forme del proprio corpo nudo. Qui l’erotismo è giocoso e compiaciuto, il contrario di quello algido e crudele della prima parte del film. Quando proverà però a sperimentare le attività più tipiche della condizione umana, mangiare e fare l’amore, dovrà rendersi conto che anche se ha imparato a tenere il ritmo della musica che sente alla radio, la sua condizione di non umana è insuperabile.

Nel suo avvicinarsi alla condizione umana Laura è diventata immediatamente fragile, eppure la spietatezza di cui sarà vittima è anch’essa un tratto essenziale delle creature umane. La riflessione di Glazer, da questo punto di vista, è molto kubrickiana: l’ambivalenza della natura umana è presentata in tutta la sua forza. Sappiamo amare ed avere compassione, ma siamo pur sempre il più pericoloso animale dell’universo.

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