Benedetta, di Paul Verhoeven (Francia, Paesi Bassi 2021)

di Laura Pozzi

Fino alla fine, tu menti” – Lambert Wilson –

A più di trent’anni di distanza dallo scandaloso e iperbolico successo di Basic Instinct, ancora una bionda di bianco (e nero) (s)vestita nutre e ossessiona l’universo amorale di Paul Verhoeven. Che si tratti di un sanguinoso punteruolo o della statuina “multiuso” della Vergine Maria, le peccaminose e cangianti creature del regista olandese continuano a provocare e stuzzicare lo sguardo dello spettatore. Non più quindi il carisma sfrontato e “frontale” di Catherine Tramell/Sharon Stone, (o algido e sfuggente di Christine Hallslag ne Il quarto uomo, impudico e folle di Olga Stapels in Fiore di carne o più recentemente perverso e raffinato di Michèle Leblanc in Elle), ma quello apparentemente sobrio e trasversale di Benedetta Carlini/Virginie Efira, la controversa badessa teatina del convento di Pescia nota per la discutibile attendibilità dei suoi miracoli e visioni, nonchè per una spregiudicata sessualità che la metterà al centro di un processo svoltosi nel XVII secolo. Verhoeven resta affascinato e misticamente rapito dalla sua figura (realmente esistita) dopo aver letto dietro suggerimento dell’olandese Gerard Soateman, suo storico sceneggiatore, Atti impuri: vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento libro scritto da Judith C. Brown nel 1987. Un testo dove vengono  minuziosamente descritti i momenti salienti del processo e i particolari più piccanti e scabrosi della relazione tra Benedetta e Bartolomea, una fuggiasca abusata dal padre che trova conforto e piacere fra le sue braccia. L’idea di trasporre la vicenda sul grande schermo è forte, ha quasi il sapore di una chiamata divina e una volta accantonate le incomprensioni con Soateman che decide di lasciare il progetto, Verhoeven punta sulla rinnovata complicità di David Birke, già sceneggiatore di Elle.

Presentato in concorso a Cannes nell’estate del 2021, il film dopo quasi due anni d’attesa vede finalmente luce grazie alla distribuzione di Movies Inspired alla quale spetta un plauso per coraggio e determinazione. La storia come già detto in precedenza si svolge in Toscana, alla fine del XVII secolo. Mentre in Italia divampa la peste la piccola Benedetta Carlini entra nel convento di Pescia accompagnata dall’inseparabile statuina della Vergine Maria. Affidata alle cure e al rigore di suor Felicita (Charlotte Rampling), la bimbetta dotata di particolare intelligenza e fervida immaginazione non tarda a proclamarsi sposa di Cristo, acquisendo attraverso le apparizioni dello sposo una dimensione divina in grado di accrescere il suo potere all’interno del convento. D’altra parte i suoi poteri speciali sono manifesti fin dalle prime immagini, quando “dall’alto” arriva un provvidenziale uccellino con impellenti bisogni fisiologici per aiutarla a sventare il furto di una collana e mettere in fuga i malfattori. Con l’arrivo di Bartolomea (la sensuale e diafana Daphné Patakia) e della sua fisicità dirompente Benedetta scopre i piaceri della carne e pur di cedere e successivamente autoassolversi è costretta a rivedere e “aggiustare” le sue visioni a favore di una dimensione terrena in grado di mantenere saldo e non compromettere il legame con Cristo. Divenuta badessa in seguito alla comparsa delle stimmate (con il dovuto scetticismo di Suor Cristina e del Nunzio Lambert Wilson) riuscirà a convincere l’intera comunità del suo ruolo da predestinata perpetuando una finzione/farsa che resterà taciuta fino alla fine.

A questo punto come direbbe qualcuno la domanda sorge spontanea: chi è veramente Benedetta? Una spietata manipolatrice, una mistica invasata o entrambe le cose? Domande destinate a restare senza risposta, almeno da parte del suo autore da sempre incline a non formulare giudizi e a predicare la libera interpretazione. “Le cose più importanti sulla terra sono sesso, violenza, religione” . Questo il Vangelo secondo Verhoeven che nella figura di Benedetta trova l’ espressione più compiuta, ma anche la più dissacrante. Ridurre il film ad una semplice e fin troppo autocompiaciuta provocazione, o ad un beffardo e ridanciano atto d’accusa nei confronti di un Cattolicesimo dedito al mercimonio, al fanatismo e all’idolatria, significa non aver frequentato abbastanza il cinema di quest’olandese volante, sedotto sul finire degli anni ottanta dagli studios hollywoodiani e campione d’ incassi al botteghino. E se arrivato alla soglia degli 85, che compirà il prossimo 15 luglio è ancora in grado di regalarci un film sregolato, vitale e furioso come Benedetta è forse il caso di riscoprire e interrogarsi su un autore spesso liquidato e collocato nel mainstream più spicciolo. Scorrendo la sua filmografia emerge indistintamente la complessità di una doppia anima (olandese e americana) capace di dialogare a chilometri di distanza.

Verhoeven viene chiamato a Hollywood da Steven Spielberg dopo la visione di Soldato d’Orange e segnalato a George Lucas per dirigere L’impero colpisce ancora. Non se ne farà nulla e l’appuntamento sarà rimandato a causa di Spetters film decisamente troppo ardito per lo star system americano. Eppure quel film maledetto assolutamente da riscoprire, popolato da  personaggi, situazioni e trasgressioni “a un passo dal baratro” resta tra le sue opere più illuminanti e sconvolgenti. Questo perché la sua biografia è disseminata da eventi drammatici e periodi irrisolti. Dietro lo sguardo beffardo a volte ironico e spesso irriverente (guai a prenderlo troppo sul serio) si cela il trauma di una guerra vissuta da bambino in prima persona e di una crisi esistenziale dovuta ad una gravidanza indesiderata che lo spingerà verso una spirale mistica fuori controllo. La figura e fisicità di Cristo sono centrali in molti suoi film e in Benedetta si fanno ancora più “carnali”, ma non per questo più blasfemi. Il corpo, come viene insegnato alla giovane è un nemico da temere, da tenere a distanza, se necessario da umiliare. Tuttavia il desiderio, tra i temi portanti del suo cinema riesce sempre ad avere la meglio e a sovvertire le regole grazie all’astuzia, intelligenza e sensualità delle sue oscure protagoniste e del loro istinto di sopravvivenza. Non a caso molte attrici tra cui Isabelle Huppert (prontamente accontentata), sognano da sempre un ruolo nei suoi film.

Ma sarebbe un errore etichettare il suo cinema come femminista, un aggettivo a lui poco consono. Semmai sarebbe da riconsiderare un cinema d’autore spesso incompreso, dotato di uno spiccato e pittorico senso dell’immagine. Amante di Ingmar Bergman a cui farà riferimento più volte (il Dio-ragno di Come in uno specchio ne Il quarto uomo, e Il settimo sigillo in Bendetta), stavolta l’omaggio cinefilo, sopratutto dopo aver ammirato il manifesto internazionale di Benedetta avvolta nel bianco della sua veste, da cui fuoriesce un capezzolo, sembra spingersi fino in Estremo Oriente e più precisamente in qualche remota località sudcoreana, dove ad attenderlo c’è probabilmente la dolente e indimenticabile samaritana di Kim-ki Duk.  

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