di Bruno Ciccaglione

Se volessimo definire Edipo Re con una espressione legata ai suoi contenuti, e al modo in cui è realizzato, potremmo dire che è un film di accecante bellezza. Raramente citato tra i film più importanti o di successo di Pasolini, rivisto molti anni dopo la sua realizzazione, appare tra le sue opere di maggiore forza e intensità. Nella messa in scena della tragedia di Sofocle, preparata e conclusa da un prologo e un epilogo ambientati in epoca contemporanea, Pasolini realizza un violento atto d’accusa contro l’uomo occidentale.

Dopo aver realizzato una prima svolta nella propria carriera cinematografica con Uccellaci e uccellini, Pasolini con Edipo re abbandona il bianco e nero e si lascia abbagliare dalla luce del Nord Africa. Per parlare del presente sceglie di tornare al mito di Edipo, ma costruisce una ambientazione completamente estranea all’immaginario della Grecia classica: utilizza una scenografia di paesaggi nel deserto, edifici di terracotta rossa; fa realizzare dei costumi ed oggetti di scena straordinari, che esaltano la dimensione arcaica e violenta della tragedia (pellicce di animali, conchiglie, spade e lance dalle forme ambigue, elmi ed armature pesanti, le maschere mincacciose dell’Oracolo e della Sfinge); sceglie delle musiche etniche degli angoli più remoti dell’Africa o del Medio Oriente, registrate dallo stesso Pasolini durante i suoi viaggi per i sopralluoghi per i suoi film e usate con acutissima sensibilità.

Al centro di Edipo re c’è l’idea della colpevolezza di un uomo apparentemente innocente, che dopo aver fatto di tutto per cercare di non vedere la verità delle sue colpe (colpe di cui non è responsabile, ma di cui è colpevole), alla fine è costretto a scegliere le tenebre, ad accecarsi ed a errare nel mondo, privato della vista. Che cosa vuol dire vedere? Che cosa significa davvero il desiderio di vedere? Che cosa succede quando prende il sopravvento il desiderio di non vedere o il tentativo di vedere solo quello che fa più comodo? È questo il senso della scena in cui, intuito di essere lui l’omicida del proprio padre e l’amante di sua madre, a letto con lei, la chiama “madre!” nell’atto di possederla (una invenzione pasoliniana non prevista certo da Sofocle). Per questo poi Edipo prosegue nella sua ricerca di una verità che vorrebbe contraddica quella sempre più evidente, che lo vuole colpevole.

Non a caso la luce di questo film è abbagliante. La tragedia avviene sotto il sole, nel deserto, mentre la colpa si espia con il buio: buia è la camera da letto in cui si uccide Giocasta, la stessa camera in cui Edipo si acceca. Addirittura Pasolini sceglie di filmare diverse scene con un violento controluce, come nella scena dell’omicidio di Laio e dei suoi uomini: la siluhette di Edipo, che solleva la spada prima di sferrare il colpo mortale alle sue vittime, scompare nel fascio abbagliante del controluce che investe l’immagine nel momento in cui egli dà la morte.


Nel prologo ambientato all’inizio del novecento, Giocasta (Silvana Mangano) e suo marito Laio (Luciano Bartoli), un militare in uniforme che non può che ricordare il padre stesso di Pasolini, servono certo a introdurre la lettura freudiana – e quindi contemporanea – del complesso di Edipo, eppure l’impostazione autobiografica di Pasolini rompe subito con una lettura troppo semplicistica: se per Freud il complesso è l’amore per la madre e l’odio per il padre da parte del figlio, qui è il padre, innanzitutto, a mostrare il suo odio per il figlio: “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho”, leggiamo nella didascalia mentre il militare guarda il suo rivale in amore nella sua culla.

Qui l’autobiografismo Pasoliniano è evidente, ma l’identificazione con Edipo significa sentire di essere parte della sua stessa cultura. L’illusione, tutta occidentale e tipica del razionalismo progressista contemporaneo, di sottrarsi al destino, sarà all’origine di tutta la vicenda, che Pasolini, diversamente dalla tragedia di Sofocle, racconta cronologicamente. È per primo il padre Laio, a provare a uccidere il figlio abbandonandolo. Edipo poi, segue le sue orme: tenta, da esponente della stessa stirpe regale quale egli è, di fare lo stesso, si illude di dominare il mondo e di poterne violare le millenarie ed eterne regole, di sfuggire al destino, ma fallirà.

Pasolini fin dalla comparsa dell’Edipo adulto – uno straordinario Franco Citti, solo, insieme alla Mangano, a doppiare se stesso in questo film non girato in presa diretta, in cui perfino Carmelo Bene/Creonte è doppiato – ce lo mostra pieno dell’arroganza tipica dei potenti: trucca i giochi sportivi per vincere, poi uccide degli sconosciuti – il padre e la sua scorta – per una questione di precedenza ad un incrocio (offeso nell’onore…), prova a prevaricare i suoi sudditi tentando di imporre la sua verità (il dialogo con Tiresia e poi con Creonte).

Contrapposto a lui è il mondo dei sottomessi, dei sudditi, rappresentati da un Terzo Mondo inesistente nella tragedia di Sofocle, poeticamente innocente e per noi riconoscibile, messo in scena da Pasolini in modo sempre originale (si pensi ai dialetti meridionali). Un mondo di popoli che mai si illudono di dominare e forgiare il mondo e che si accontenterebbero invece semplicemente di abitarlo, costretti come sono a pagare mortalmente con carestie e disastri le conseguenze delle azioni dei potenti, sprezzanti nel loro delirio di onnipotenza.

È con quei popoli, è con quel mondo, un po’ inventato artisticamente e un po’ effettivamente incontrato nei suoi viaggi, che Pasolini si sente in sintonia. Edipo invece, l’uomo occidentale, è una creatura ormai misera, che erra cieca, condannato a non trovare pace nel mondo.

Il film è visibile su Youtube
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