di Andrea Lilli –
Varsavia. Nella prima sequenza vediamo Janusz di spalle, mentre arriva sul luogo del delitto di turno, in un’area verde ai margini della Vistola. Stavolta è un evidente caso di suicidio: il corpo di un uomo, probabilmente un barbone, penzola da un albero. Si fanno i rilievi, la corda viene tagliata, il corpo precipita a terra. Il cielo, il fiume, Janusz, gli agenti di polizia osservano la scena, grigi e freddi spettatori. E restano muti e immobili quando l’impiccato si rialza e se ne va tranquillo, silenzioso, un po’ infastidito da quell’antipatico rinvio nella sua agenda.
Il titolo polacco, Ciało (somiglia a cielo, si pronuncia ‘ciauo’) a noi italiani suona aereo e impalpabile come un saluto, invece il significato è solidissimo, e non se ne va mai da noi: Corpo. È un film coraggioso e spiazzante: sincero e diretto nei temi affrontati, scuro nei colori ma insieme luminoso, delicato, ironico e lieve. Come un velo di seta leggera, avvolge e rivela nei dettagli le sagome dei tre protagonisti: di tre fisicità e personalità assai diverse tra loro, lo sguardo frusciante e imparziale della Szumowska fa emergere abitudini, dubbi, crisi, rifugi, speranze.


Il corpo del procuratore Janusz è pesante, gonfio, chiuso in una sicumera razionale al limite di un apatico e anaffettivo cinismo, impermeabile alle emozioni e agli orrori del mestiere quanto disposto al cibo e alla vodka. L’opposto del corpo della figlia Olga, adolescente anoressica e bulimica. I due convivono senza dialogare, senza riuscire ad elaborare la mancanza di un altro corpo, quello dell’amata moglie e madre, scomparsa alcuni anni prima. Olga non lo sopporta quel padre di pietra, nulla sembra scalfirlo; gli rimprovera una colpevole indifferenza generale, lo provoca continuamente ma tutto su lui rimbalza, e il disagio le si ritorce contro trascinandola in uno stato psicofisico di estremo pericolo.


Il padre la ricovera in un centro specializzato di recupero, dove i due incontrano Anna, psicoterapeuta attenta e sensibile, anzi: sensitiva. È convinta di poter comunicare coi morti, pure lei ferita da un trauma importante, un figlio di pochi mesi perso improvvisamente otto anni prima. Anna vive con un cane di grossa taglia, unica presenza domestica, a parte quella percepita del figlio scomparso. Anche lei trascura il proprio corpo avendone archiviata la sessualità, come le fa notare una paziente. Anna dedica ogni energia e fantasia al corpo degli altri, vivi o morti, con il recupero delle ragazze anoressiche e il (presunto) contatto extrasensoriale dei cari defunti.


Tre corpi, tre anime inquiete malgrado le apparenze, che cercano un equilibrio interno, ognuno a modo proprio. Janusz e Anna si buttano nel lavoro, Olga nella guerra col cibo. Tre isole solitarie che non possono salvarsi da sole e che s’incontrano in extremis. Olga trova in Anna una brava terapeuta che può aiutarla, Anna in Olga una confidente cui finalmente rivelare il proprio segreto, e il cinico Janusz – prima diffidente, resistente ad ogni cedimento della Ragione – accetta l’assistenza parapsicologica offerta da Anna. Del resto, fin dalla scena dell’impiccato redivivo non gli sono più chiare le regole del gioco biologico: morti che riappaiono (bellissima l’apparizione della moglie seminuda danzante), vivi che vogliono solo scomparire… Anche in casa del procuratore avvengono fatti inspiegabili: finestre e porte che si aprono da sole, sogni strani, uno stereo che s’accende spontaneamente. La canzone che trasmette, guarda caso, è You’ll Never Walk Alone di Gerry & The Pacemakers, nella versione sacra ai cori dei tifosi del Liverpool, quella che fa tremare gli stadi: ma qui rabbrividisce solo il povero Janusz.
I brani musicali in questo film sono pochissimi ma importanti: tre come i corpi, e scelti con precisione chirurgica. Rompono i silenzi delle tre solitudini nel momento e nel modo giusto, intervengono quasi terapeuticamente. Altrettanto ben studiato è il suono del respiro, dei passi di Janusz. Ci immedesimiamo in lui anche grazie ai rumori del suo corpo: sentiamo come cammina, ansima, ride, barcolla nelle sue certezze. Małgorzata Szumowska confermerà nel film successivo, Un’altra vita – Mug (2018), questa sapienza nel dosaggio di silenzi e musiche, di sguardi e parole. La regista 42enne, ormai una certezza tra le più interessanti del cinema polacco, è maestra di stile nel dire cose forti – anche “politiche” – con poche parole. Non impone emozioni né opinioni allo spettatore: le induce, le offre gentilmente nei gesti, spesso col sorriso. La Szumowska non crede ai fantasmi ma ai problemi delle persone in carne e ossa, che indaga con lente femminile, empatica, scevra di facili giudizi moralisti o ideologici.
Nel finale dunque i tre corpi si ritroveranno intorno a un tavolo tondo, le mani unite come prevede il rituale chiuderanno il cerchio, il triangolo della storia. Aspetteranno, aspetteremo con loro a oltranza che la defunta amatissima si palesi, almeno ci dia un segnale. L’attesa sarà lunga, l’esito incerto, anche per il residuo scetticismo di Janusz. Un miracolo, toccante, alla fine ci sarà.

Eccellenti le interpretazioni dei tre attori principali; sorprende soprattutto quella di Justyna Suwała (Olga), alla prima esperienza cinematografica.
- Orso d’argento per la Miglior Regia al Festival di Berlino 2015
When you walk through a storm,
Hold your head up high
And don’t be afraid of the dark
At the end of the storm, there’s a golden sky
And the sweet, silver song of a lark
Walk on through the wind
Walk on through the rain
Though your dreams be tossed and blown
Walk on, walk on
With hope in your heart
And you’ll never walk alone
You’ll never walk alone
Walk on, walk onQuando cammini attraverso una tempesta
Tieni la testa alta
E non aver paura del buio
Alla fine della tempesta, c'è un cielo dorato
E il dolce canto argenteo di un'allodola
Cammina nel vento
Cammina sotto la pioggia
Anche se i tuoi sogni vengono sballottati e fatti saltare
Cammina, cammina
Con la speranza nel tuo cuore
E non camminerai mai da solo
Non camminerai mai solo
Cammina, cammina