di Marzia Procopio
«Quando ero giovane la vita era fatta di tappe, dopo lo studio si cercava un lavoro, poi si metteva su famiglia. Oggi purtroppo, non è più così, è subentrata l’insicurezza, i contratti sono sempre più precari, le persone devono lottare per sopravvivere.»
Ken Loach

In principio fu Tempi moderni di Charlie Chaplin, con il suo messaggio umano, politico e sociale di assoluta attualità tanto più in un momento storico in cui la pandemia ha durissimamente messo in crisi il sistema economico, produttivo, sociale fondato sulla globalizzazione e sull’interconnessione i cui limiti e le cui fragilità vengono denudati in questi giorni dalla guerra in Ucraina e in cui soltanto nel nostro Paese e soltanto nei primi mesi del 2022 siamo già a 180 morti sul lavoro. Tornato sugli schermi nel 2014 all’uscita della versione restaurata dalla Fondazione Cineteca di Bologna e dotata della colonna sonora originale, Tempi moderni uscì nelle sale cinematografiche nel 1936, fotografando il clima politico del momento e schierandosi a difesa della dignità dell’uomo contro il dominio della macchina e l’asservimento dell’individuo all’alienazione della catena di montaggio che Henry Ford aveva introdotto nel settore automobilistico e che era sostenuto dal “management scientifico” ideato da Frederick W. Taylor, che indicava metodi di lavorazione finalizzati a ridurre i “tempi morti” e incrementare la produttività con la ripetizione di gesti semplici e automatici che “anche un bambino di tre anni avrebbe saputo compiere” (Henry Ford).

Il film, uno dei vertici della filmografia chapliniana, mette al centro del racconto l’operaio Charlot e le sue vicissitudini di lavoratore che stringe bulloni in una catena di montaggio con gesti ripetitivi e ritmi disumani, e che finisce per perdere la lucidità all’interno della sala di comando del suo reparto provocando così l’arresto dell’intera catena produttiva. Ne conseguono il ricovero in una clinica psichiatrica per curare l’esaurimento nervoso, l’arresto accidentale in seguito al coinvolgimento in un corteo di disoccupati, la grazia e una lettera di presentazione come ottimo lavoratore ricevuta per aver accidentalmente e involontariamente sventato una rivolta di galeotti. Durante le sue disavventure, il povero Charlot incontra dei poveri pronti a rubare per combattere la fame, fra cui vediamo una ragazza, Monella, che ruba delle banane per sfamare le due sorelle più piccole e il padre disoccupato, che sarà ucciso dalla polizia durante una manifestazione. Assunto in un cantiere navale, a seguito di un altro errore Charlot ricomincia a girovagare per la città e incontra Monella, che ha rubato del pane e rischia di essere arrestata; prima tenta di auto-accusarsi per salvare la ragazza e tornare in carcere (cosa che gli risolverebbe il problema della fame) ma poi, non essendo creduto, mangia in un ristorante dove non può pagare ed è arrestato. La trama si snoda lungo diversi colpi di scena grazie ai quali lo spettatore può scoprire la condizione socio-economica degli Stati Uniti negli anni Trenta, segnata dai dalla miseria e della disoccupazione delle classi lavoratrici conseguite alla Depressione. Nonostante infatti il New Deal, il piano di riforme varato dal presidente democratico Franklin Delano Roosevelt, proseguono gli scioperi, che coinvolgono milioni di lavoratori costretti spesso a subire le violenze delle forze dell’ordine.
Quando Chaplin scrive e gira Tempi Moderni (1933-1935), ha già creato capolavori come Il Monello, La febbre dell’oro, Il circo e Luci della città. È ricco e famoso, ma ha spesso apertamente dichiarato di essere a favore della classe operaia e di tutti gli emarginati, meritandosi così dalla destra reazionaria americana l’accusa di essere un “progressista di estrema sinistra” solo perché mette in luce le contraddizioni della società statunitense e denuncia la condizione dei poveri e dei disoccupati, ai quali egli vuole sia riconosciuto il diritto di “avere un tetto sulla testa, lavorare liberamente e formarsi una famiglia”. Nel 1949, il regista inglese sarà accusato di “filocomunismo” e nel 1952, in pieno Maccartismo, espulso dagli Stati Uniti per “sfregio della moralità pubblica” e per le critiche rivolte con i suoi film al sistema democratico del Paese che gli aveva dato celebrità e ricchezza.
Sarà un altro inglese, Ken Loach, a proseguire idealmente il discorso sulle condizioni alienanti e disumane in cui, dopo cento anni, versano ancora le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo: una vita dedicata allo studio e al racconto di storie di ingiustizia sociale attraverso una scrittura e una macchina da presa che evidenziano le drammatiche condizioni dei protagonisti, ultimi della società, le scelte, le paure, le speranze e l’orgoglio. Dal primo successo internazionale, Riff Raff del 1991, che narrava con semplicità e comica schiettezza la perdita di tanti posti di lavoro e un nuovo e diffuso precariato spietato negli anni della “new economy” formato Tatcher, le storie di Loach guardano sempre nella stessa direzione ma sempre da prospettive diverse. Tanti sono i suoi film tra cui My name in Joe del 1998, storia di un allenatore di calcio che cerca di salvare dalla strada e dalla droga i ragazzini dei sobborghi di Glasgow; la commedia amara Il mio amico Eric, La parte degli Angeli, anch’esso ambientato in Scozia, dove un esperto di whisky che lavora per i servizi sociali cerca una disperata e comica via per recuperare ragazzi sbandati, dandogli una chance proprio attraverso la conoscenza, e poi Io, Daniel Blake e Sorry we missed you.
Re-movies, per celebrare oggi, ancora una volta e a maggior ragion visti i tempi cupissimi che attraversiamo, la Giornata internazionale dei lavoratori, vi propone le recensioni di alcuni film di Loach, il quale ha dichiarato: «I miei sono solo dei film. Non faccio politica. Tutto quello che voglio quando scrivo una sceneggiatura è che gli spettatori escano dal cinema ponendosi alcune domande, in preda a un senso di rabbia che potrebbe guidarli a condividere il problema.»
Buon 1º maggio a chi lavora e a chi no, per motivi che non dipendono da ləi
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