di Andrea Lilli –
Una storia semplice è tratto dall’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia, nato esattamente un secolo fa. Un libretto sottile, poche decine di pagine, uscito nei giorni in cui lo scrittore siciliano morì. Ricordo bene la sua copertina ruvida color giallo cromo, perché ne maneggiai centinaia di copie. Chi al tempo lavorava in una libreria, sa bene che il volumetto dell’Adelphi fu di gran lunga il più acquistato nel Natale ‘89. In negozio si faticava ad averne a sufficienza, spariva subito e non era facile rifornirsene, le ristampe venivano presto esaurite, il che mi rese diffidente: non mi piacciono le mode culturali. Evitai a lungo di leggerlo, per quanto incuriosito, e malgrado fosse così breve (la malattia non permise a Sciascia di svilupparlo come previsto). Sbagliai però a snobbarlo, a credere che fosse solo un fenomeno di consumo natalizio. L’exploit delle vendite proseguì ben oltre le feste, e non si lasciava spiegare solamente dalla popolarità dell’autore presso i suoi lettori abituali, quelli di sinistra.

Nato a Racalmuto (Agrigento) l’8 gennaio 1921, due settimane prima della scissione del Partito Socialista che portò alla fondazione del Partito Comunista, Leonardo Sciascia incrociò più volte nella sua biografia le dinamiche interne a tutto l’arco della sinistra italiana del dopoguerra. Fu sempre impegnato politicamente, con la penna e nelle istituzioni amministrative, che lo videro scendere in campo da protagonista attivo pur senza mai rinunciare ad un’assoluta libertà di critica e di scelta. Consigliere comunale a Palermo dal 1975 al 1977 per il PCI, deputato in Parlamento per il Partito Radicale dal 1979 al 1983, eletto anche a Strasburgo, negli ultimi anni si avvicinò al Partito Socialista. E malgrado il costante impegno civile, rifiutò sempre di essere definito come un politico, intendendo quest’etichetta nell’accezione comune di uomo politico di mestiere. Di tutti i suoi numerosi scritti, rivendicò come più squisitamente politici (nel significato nobile del termine) quelli in cui espose le terribili condizioni di lavoro dei braccianti siciliani, dei salinari, dei solfatari del suo paese di nascita.

Più dei celebri romanzi, delle drammaturgie, dei magistrali saggi su mafia e corruzione ad ogni livello, lo rese fiero il successo della raccolta Le parrocchie di Regalpetra (1956), con cui denunciò la miseria e lo sfruttamento dei lavoratori del suo paese (Regalpetra = Racalmuto), e grazie alla cui risonanza la vita dei cavatori di sale e delle loro famiglie cominciò a migliorare. Era questo il vero senso della politica, per Sciascia, il cui nonno era stato minatore di zolfo, e il padre contabile nelle stesse miniere.
Una storia semplice esercitò dunque, dicevamo, una fascinazione tutta particolare anche presso categorie di lettori meno riferibili alla militanza politica di Sciascia. Forse per la brevità, per il titolo incoraggiante (lo stile letterario di Sciascia, denso e spesso allusivo, non è mai semplicissimo), forse perché fu il suo ultimo lavoro. Anni dopo la sua pubblicazione, vidi il film di Emidio Greco; colpito dalla straordinaria interpretazione di Gian Maria Volonté, finalmente lessi il racconto, e capii il vero motivo. Quelle pagine, quel film (ad esse fedele), rappresentano non tanto una storia semplice, quanto una storia comune, universale, connaturata all’uomo di ogni credo, epoca e geografia: la storia della sopraffazione, della rassegnazione, dell’omertà.
«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». Questa la citazione di Friedrich Dürrenmatt messa in esergo al romanzo. Se saltiamo tutto e vediamo la scena finale – le ultime parole del suo ultimo racconto – concludiamo che per Sciascia quelle possibilità sono pari a zero: il testimone decisivo, avendo ricordato il volto del criminale «Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: “E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?” Riprese cantando la strada verso casa.». Notare che costui è un giovane settentrionale. Un testimone che si sottrae al suo dovere morale, alla posizione eretta di uomo dotato di spina dorsale. Omertoso, rassegnato, sopraffatto. E canta (non nel film: il libro è più sarcastico) tornando al nord.

Ma andiamo per ordine. La storia inizia sul ponte di un traghetto diretto alla costa siciliana. Per la prima volta in viaggio verso l’isola, un rappresentante farmaceutico (Massimo Ghini) si siede vicino a Carmelo Franzò, vecchio professore di italiano, malato ma lucidissimo (Gian Maria Volonté): l’alter ego di Sciascia. C’è una breve conversazione, in cui Volonté mostra subito una capacità espressiva superiore e una versatilità incredibile nel trasformarsi in siciliano, lui milanese cresciuto a Torino. Alzatosi faticosamente, appoggiandosi sul bastone, il professor Franzò si congeda pronunciando a voce alta la domanda che l’interlocutore sta facendosi in silenzio, Come si fa ad essere siciliani?. Il suo stesso comportamento dimostrerà che per certi versi non è poi così difficile, nemmeno per un veronese.

Seguiamo la macchina del rappresentante. Raggiunge in serata la cittadina di Monterosso. È la vigilia della festa del patrono, San Giuseppe: ardono falò in suo onore sulla piazza principale del paese. Nella stazione di Polizia, il brigadiere Lepri (Ricky Tognazzi) riceve la telefonata di un certo Luca Roccella (Giorgio nel romanzo), personaggio di nobile casata, che allarmato lo sollecita a vedere con urgenza una cosa rinvenuta nella propria villa, essendovi tornato dopo molti anni di assenza per una ricerca tra gli epistolari storici di famiglia. Il commissario (Ennio Fantastichini) convince Lepri ad andarci il giorno dopo. Nel sopralluogo, il brigadiere constaterà la morte del Roccella per un colpo di pistola alla tempia. La scena sembrerebbe quella di un suicidio, se non fosse per alcuni particolari incongrui che il brigadiere riporta puntualmente nel suo rapporto. Punti oscuri ma insignificanti per il questore (Massimo Dapporto): questo è un caso semplice, sentenzia. Alle spalle della sua scrivania, la riproduzione di una spada col detto minaccioso Non ti fidar di me se il cuor ti manca fa il paio con il vacuo Non dubito di nulla, dubito di tutto pronunciato dal colonnello dei Carabinieri (Paolo Graziosi) di fronte al procuratore (Gianluca Favilla) che coordina le indagini, orientandole verso l’ipotesi più comoda. Aggiungiamo il commissario, che puzza di sporco da lontano, ed ecco un poker fetente di compari contro cui l’onesto Lepri poco potrebbe, nella sincera ricerca della verità, se uno di loro non commettesse alcuni errori. E se il professor Franzò, vecchio insegnante del procuratore e caro amico della vittima, non incoraggiasse il brigadiere a dubitare, a ragionare. Come Sciascia fece per tutta la sua vita, da illuminista qual era.

Mentre proseguono le indagini e gli interrogatori di routine, la macchina del rappresentante ci conduce, tra magnifiche vedute dell’altopiano, al secondo delitto di questa storia: nella stazione ferroviaria vengono trovati i cadaveri del capostazione e di un manovale. Il malcapitato veronese viene arrestato. Intanto, il brigadiere capisce che nelle stalle del Roccella si elaborava droga. Giunge l’ora della resa dei conti col commissario, che non tollera oltre quel segugio irrispettoso della gerarchia. Una specie di duello tra pistoleri, dove il Lepri ha la meglio. Le tessere del puzzle si ricompongono: era stato il commissario ad uccidere Roccella, che rientrando a casa senza preavviso aveva trovato un quadro prezioso e forse anche i segni di un laboratorio clandestino, nelle stalle. Faceva dunque parte di un clan di trafficanti di droga e di opere d’arte (il romanzo fu ispirato a Sciascia dal furto di una Natività del Caravaggio).
Il procuratore, magistrato garante del buon nome delle istituzioni, piuttosto che della verità, convince Polizia e Carabinieri (come al solito in competizione tra loro) ad interrompere le indagini sul caso Roccella, e a concordare una versione falsa sulla morte del commissario. Una storia semplice, anche qui: È stato un incidente. Del resto, Non si può ridare vita alle vittime. Il rappresentante viene liberato dal fermo, ma uscendo si imbatte nel parroco del paese, padre Cricco (Omero Antonutti): lei non è della mia parrocchia. Già, la parrocchia: come quelle di Regalpetra. Ripresa la macchina, sulla strada del ritorno, il rappresentante ricorda dove aveva già visto il prete: era uno degli assassini della stazione ferroviaria. Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: “E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?” Riprese cantando la strada verso casa.
omertà s. f. [variante napol. di umiltà, dalla «società dell’umiltà», nome con cui fu anche indicata la camorra per il fatto che i suoi affiliati dovevano sottostare a un capo e a determinate leggi]. – In origine, la consuetudine vigente nella malavita meridionale (mafia, camorra), detta anche legge del silenzio, per cui si doveva mantenere il silenzio sul nome dell’autore di un delitto […]
Vocabolario Treccani

Il film venne dedicato a Gianluca Favilla, scomparso in un incidente stradale poco tempo dopo la fine delle riprese, e fu l’ultimo girato in Italia da Gian Maria Volonté, il terzultimo prima della sua scomparsa. Senza la sua interpretazione, senza i suoi primi piani, i suoi sguardi, sarebbe stata un’altra storia.
- Il film è visibile su YouTube

“L’italiano non e’ solo l’italiano… e’ il ragionare”. Film metafisico.
"Mi piace"Piace a 1 persona