di Marzia Procopio –
“Qualsiasi macchina da presa ha due obiettivi: uno riprende l’esterno e l’altro l’interno di chi sta girando.”
Wim Wenders
Verso la fine di marzo del 2020, quando il nostro Paese entrò nel lockdown imposto dall’epidemia mondiale di Covid-19, il regista Premio Oscar 1992 per Mediterraneo Gabriele Salvatores ebbe l’idea di chiedere agli italiani di documentare la loro esperienza di quarantena attraverso filmati girati con il cellulare. Arrivarono più di quindicimila testimonianze, che il regista nei mesi successivi ha composto, con il magnifico montaggio di Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti, in un “documentario collettivo” prodotto in collaborazione con la Rai; presentato alla Festa del Cinema di Roma il 24 ottobre 2020, Fuori era primavera – Viaggio nell’Italia del lockdown è disponibile dal 10 dicembre su RaiPlay.

La prima parola del titolo, “fuori”, ben compendia il tono emotivo di un racconto corale commovente, che ha al suo centro i sentimenti provati da persone di ogni età ed estrazione sociale nella prima esperienza collettiva di reclusione ed esclusione dal mondo di fuori, per l’appunto, quello che fino al 3 marzo del 2020 avevamo dato per scontato, sempre a portata di mano, esclusivamente nostro per una sorta di diritto acquisito; e invece non lo era affatto, perché se fuori era primavera e la Natura rinasceva e anzi si espandeva grazie alla temporanea assenza dell’Homo Sapiens Sapiens – significativamente, il regista sceglie di aprire con immagini naturali di grande impatto visivo montate in alternanza ad altre che ritraggono persone che si muovono frenetiche nelle megalopoli – noi invece, sequestrati da un virus grande 160 nanometri, eravamo intrappolati fisicamente ed emotivamente nelle nostre case, in una specie di beffardo rovesciamento di posizioni. Il racconto corale che scaturisce dai video inframmezzati da filmati tratti dai telegiornali e dalle trasmissioni di approfondimento, fa emergere il ritratto sorprendente e commovente di un Paese animato da un grande desiderio di farcela insieme.

I titoli di coda di questo bellissimo documentario riportano i nomi dei molti testimoni dell’evento, che non è iperbolico definire ‘epocale’ perché lo è in senso etimologico: un surreale momento di sospensione del tempo che in ciascuno di noi ha lasciato segni profondi di cui potremo misurare la portata solo negli anni. Alcuni protagonisti compaiono per pochissimi secondi – gli infermieri che intubano i malati gravi vestiti come astronauti e riconoscibili solo dai nomi scritti col pennarello sulle loro mantelline protettive, l’operatore sanitario che con un primissimo piano rivela sorridendo alla videocamera la sua speranza che la notte in ospedale sia tranquilla, i carcerati in rivolta (che a dire il vero raccolsero solo biasimo, nessuna solidarietà empatica da parte nostra, che pure ci sentivamo boccheggianti perché privati della nostra quotidianità, costretti nelle gabbie dorate delle nostre “tiepide case”, uniti da un inusuale, condiviso senso di auto-tutela e di protezione solidale degli altri; loro, tre metri quadri a testa, a respirare la stessa aria in celle talvolta con lamiere di ferro, sui muri muffa e umidità, senza certezze di poter comprare i prodotti per disinfettare i lavandini in comune, il corpo, i panni, i piatti, a lavarsi in docce condivise). Altri appaiono più volte nel corso della narrazione, come la mamma in attesa che mostra la pancia gonfia giocosamente trasformata in autocertificazione scritta a penna e che infine torna a casa con la neonata, l’infermiere con gli occhiali, la signora di centotré lucidissimi anni incredula per aver visto anche questo.
Alcuni si raccontano alla macchina da presa delle troupe televisive mandate a intervistarli: la postina di Nembro, la signora che piange perché ha portato la madre in una RSA per “fare un po’ di riabilitazione”, i medici disperati e stanchi. Coppie affiatate di acrobati si allenano nei cortili e i ballerini classici volteggiano in una stanza sgombrata dai mobili, i bambini davanti ai computer alzano la mano per rispondere alle domande della maestra come se stessero in aula o giocano, i più piccoli, a sconfiggere il virus con le spade di plastica, tentando di esorcizzare le paure degli adulti con il pensiero magico. Scene emozionanti di compleanni e lauree online con tanto di candeline e corone d’alloro, auto-racconti anche della forza inaspettata, dei sogni salvifici, dei propositi per “quando tutto sarà finito”, il ricordo commosso di un figlio che non ha potuto salutare il padre, questo forse il trauma che negli anni sarà il più difficile da elaborare.
‘Fuori’ era primavera, e gli orsi i cervi le anatre si riprendevano le strade; ‘dentro’ le emozioni fluivano tumultuose dalle notizie dei contagi e delle vittime, e noi, esposti in ogni momento della giornata al rumore e all’imperativo della paura, tutti a comprare, per esorcizzare il terrore del contagio e quello del vuoto esistenziale, scorte di dispositivi di protezione e sostanze disinfettanti e generi alimentari in quantità: tante storie diverse, tanti volti, tenuti insieme dal fil rouge di una figura simbolica, il giovane rider milanese che tiene i conti dei suoi sparuti guadagni nel silenzio delle strade deserte, a sottolineare un danno non solo economico, ma anche emotivo e relazionale che, pure, gli italiani sembrano riuscire ad arginare, chi con la creatività che viene dall’amore (il padre infermiere trasforma per non toccare il suo bambino “un abbraccio da orso in uno da aquila”), chi con la solidarietà della spesa del banco alimentare.

Accanto all’umanità variopinta che l’epidemia paradossalmente ricostituisce come comunità ideale, Fuori era primavera mostra anche le cose – le colonne di camion dell’esercito a Bergamo, lenzuoli con i nomi dei deceduti, bare – e i luoghi desertificati e talora più belli – la magnifica Tavolara che si fa rifugio azzurro della coppia di anziani, i cinema e i teatri e i loro sedili così desolati senza di noi, le scuole e le piazze delle città italiane; Roma ricorre più volte, vuota e irreale nella sua bellezza tanto folgorante da far male. Eppure, non è affatto un racconto deprimente: il padre disabile bloccato sulla sedia a rotelle che bacia il suo bambino, l’insonnia e la solitudine che scavano dentro le anime, hanno come contrappunto di pienezza la scoperta di tetti e terrazzi condominiali fino a quel momento trascurati, le tavole che collegano i balconi per un pranzo coi vicini, i panieri colorati che salgono e scendono, le piantine disposte su davanzali che divengono inaspettati “angoli di gioia”: in una parola, le risorse trovate in se stessi e negli altri da un popolo rappresentato senza melensaggini retoriche in una vulnerabilità che sa farsi forza proprio attingendo alle paure e al senso di impotenza.
Alternando speranza e dolore, intrecciando storie individuali raccontate con la sincerità di emozioni che rispecchiano l’ordine cronologico degli eventi, dal mercato del pesce di Wuhan dove tutto ha avuto origine (inquietanti le riprese delle migliaia di pesci e molluschi ammassati nei vasconi) fino all’inizio della fase due, Fuori era primavera è racconto di un’esperienza potenzialmente distruttiva orchestrato dalla sensibilità e dalla maestria di un regista che, cucendo insieme i contributi degli italiani in un montaggio che mescola sonori a immagini provenienti da fonti e filmati diversi, con un viaggio appassionato attraverso un Paese atterrito e incredulo, restituisce anche a futura memoria – fuori era primavera, diremo ai nipoti e ai pronipoti – una fotografia autentica e affettuosa dell’Italia di oggi, costituendosi come documento prezioso, testimonianza forte e positiva, fattore di riconoscimento identitario contro la dimensione globale e disgregante della pandemia.

Percorso da riflessioni anche politiche – la condizione dei lavoratori meno garantiti, la macro-questione ecologica, dagli allevamenti intensivi al cambiamento climatico e alla rinascita della natura – Fuori era primavera ricorda “come eravamo”, induce a riflettere su come siamo ora (sempre esposti e fragili in questa confusiva seconda ondata), ma soprattutto commuove fino alle lacrime. Si ride, si sorride, si piange, ci si sente meno soli, e soprattutto si crede che alla fine di tutto, forse, qualcosa davvero avremo imparato e che la frase sconsolata del rider “anche oggi si guadagna domani” voglia alludere in realtà alla possibilità che, attraverso l’esperienza epocale della crisi ed esposti all’incertezza di un futuro che si preannuncia molto difficile, possiamo guadagnare un domani più ricco di consapevolezza e insegnamenti.