Fog (1980) di John Carpenter

di Fabrizio Spurio

“A tutte le barche al largo che ricevono la mia voce io dico: tenete d’occhio il mare, scrutate l’oscurità, la nebbia è in agguato”.

Dopo il successo di “Halloween – la notte delle streghe” (1978), Carpenter decide di girare un nuovo film del terrore, ma che si allontanasse il più possibile dalle atmosfere del film precedente. Se “Halloween” è un thriller incentrato sul serial killer, quindi un orrore, almeno apparentemente terreno, “Fog” è un perfetto esempio di classica storia di fantasmi. Già dall’incipit è svelata questa voglia di classicismo con l’episodio del vecchio pescatore (John Houseman) che, sulla spiaggia intorno ad un fuoco, narra una storia di fantasmi ad un gruppo di bambini. Carpenter sfrutta questa sequenza anche per gettare le basi della storia, con il racconto della nave di lebbrosi fatta affondare volutamente, dai fondatori di Antonio Bay, per poter rubare l’oro a bordo del veliero naufragato e poter quindi edificare il paese. La storia del film ha luogo esattamente nel giorno del centenario della cittadina. In quella data gli spettri dei lebbrosi morti torneranno, avvolti in un banco di nebbia simile a quella del giorno del naufragio, per avere la giusta vendetta. Il monito è chiaro: sei devono morire, come sei erano gli artefici del massacro originale.

Il film rispecchia un chiaro concetto nella mente di Carpenter: la società americana, spesso tanto puritana, nasconde nel suo passato azioni di cui vergognarsi. Ma molto spesso queste azioni si preferisce lasciarle sprofondare nell’oblìo. Ma in un modo o nell’altro la verità viene sempre in superficie. E in questo caso lo fa letteralmente in quanto i morti risorgeranno proprio dal mare che li ha custoditi per un secolo. Quindi l’ipocrisia della celebrazione è svelata. Come dice uno dei personaggi, padre Malone (Hal Holbrook): “stiamo festeggiando degli assassini”! E’ proprio il prete a rinvenire il diario del nonno che, all’epoca dello sterminio, lo aveva murato in una parete della canonica. Una sorta di confessione che porta in sé il sapore amaro della vergogna. Carpenter orchestra il film con lentezza, calcolando i tempi della suggestione e della tensione. Non siamo gettati all’interno della vicenda in modo violento, ma delicato, come delicata è la nebbia che scivola sul mare. Una lenta ascesa verso la tensione ed il terrore, quando gli spettri dei marinai cominciano a bussare alle porte delle case della cittadina. Le vicende dei protagonisti scorrono parallele, mentre il pericolo diventa sempre più minaccioso.

Tra gli attori troviamo volti noti nel cinema di Carpenter: Tom Atkins, Charles Cyphers. Particolarmente rilevanti i ruoli femminili. La giovane dj della radio locale, Stevie Wayne è interpretata da Adrienne Barbeau, futura moglie del regista che comparirà anche in “1997: fuga da New York” (1981). E’ grazie a Stevie che la cittadina di Antonio Bay può resistere al dilagare della nebbia perché, dall’alto della sua stazione radio, situata all’interno del faro, la ragazza può osservare il dilagare del fenomeno. La scena in cui lei, sola nel faro, braccata dagli spettri che la inseguono fin sopra il tetto della costruzione, è un perfetto esempio di tensione e calcolo dei tempi narrativi. E’ questa anche l’unica concessione che Carpenter fa in questo film per quanto riguarda il gore: cercando di difendersi dagli spettri, veri e propri zombi, Stevie riesce a strappare un cappuccio dal volto di uno di loro, mostrando allo spettatore il volto putrefatto e roso dai vermi che si cela sotto gli stracci dei morti.

Interessante anche il personaggio di Elizabeth, interpretata proprio da Jamie Lee Curtis, lanciata dallo stesso Carpenter nel film precedente “Halloween”, e che qui recita al fianco della madre Janet Leigh (che ricopre il ruolo di Kathy Williams, l’organizzatrice della festa del centenario). Nonostante il basso budget del film, Carpenter decide di girare la pellicola in formato anamorfico, panoramico, proprio per rendere il film più cinematografico, ed alzarne quindi il livello qualitativo. L’immagine dell’apparizione del galeone fantasma, all’interno della nebbia, è potente ed evocativa. Efficace è anche la scena dell’obitorio, quando un cadavere ritorna in vita mentre Elizabeth, ignara, attende il ritorno di Nick che sta parlando con il medico che ha eseguito l’autopsia. Il cadavere si desta lentamente, mentre il montaggio gioca con le attese, inquadrando a volte Elizabeth e a volte i due uomini che discutono nel corridoio dell’ospedale. Il pubblico vede il pericolo, e scatta il meccanismo di tensione nello spettatore, vittima degli artefici tecnici di Carpenter. Il tutto condito dalla musica composta dallo stesso regista, che regala una suggestione in più su tutta l’opera.

Carpenter, inoltre, omaggia apertamente i suoi maestri. Da Hitchcock prende spunto per il nome della cittadina di mare, memore della Bodega Bay del film “Gli uccelli”(1963), e dallo stesso film mutua l’idea dell’assedio del centro abitato. Altro chiaro omaggio è riservato al regista Howard Hawks, artefice, anche se non dichiarato, del capolavoro “La cosa da un altro mondo” (1951): il discorso finale di Stevie, in cui ammonisce i pescatori a scrutare la nebbia per difendersi dal male, fa il paio con il discorso finale del giornalista che, nel film di Hawks, avvisava il genere umano di tenere gli occhi nel cielo, per evitare di essere sorpresi da altre minacce spaziali. L’omaggio a questo regista, studiato profondamente da Carpenter, sarà totale quando lui dirigerà il remake del film di Hawks, “La cosa” (1982). Ma in “Fog” si ritrovano potenti anche le suggestioni letterarie di Lovecraft: l’orrore per l’ignoto, l’ineluttabilità dell’incontro con un male dal quale è impossibile fuggire, anche una volta che il torto è stato riparato. Il male ha le sue leggi. Anche se il film sembra concludersi con la restituzione dell’oro agli spettri, ecco un colpo di coda: i morti ritornano comunque a reclamare l’olocausto a loro dovuto. La maledizione parla chiaro, sei devono morire. Non c’è pietà ne concessione.

La nebbia dilaga portando con sé la rabbia e il dolore.

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