di Girolamo Di Noto

C’è un cinema che pretende di sapere tutto, smodatamente loquace, che dice troppo e alla fine non dice niente. C’è poi un cinema che non racconta se non minime storie, frammenti di vita, ma del mondo è in grado di svelare più di un segreto. Il cinema di Pietro Marcello appartiene a questa seconda famiglia. Cineasta casertano, classe 1976, prima di venire alla ribalta con Martin Eden, Pietro Marcello ha da sempre cercato di percorrere strade coraggiose, di realizzare un cinema capace di “dire le cose”, senza infingimenti, creando immagini umane e poetiche.

Presentato nella sezione Orizzonti Doc alla 64 Mostra del Cinema di Venezia, Il passaggio della linea è un viaggio che attraversa l’Italia cadenzato dal ritmo dei treni espressi notturni a lunga percorrenza, che di lì a poco sarebbero stati soppressi con l’avvento dell’alta velocità. Il film racconta, attraverso le facce e le voci dei viaggiatori, le storie di giovani, anziani, pendolari, lavoratori stagionali, migranti, vagabondi, le loro apprensioni sul futuro, lo sguardo smarrito sul presente.

Ciò che rende originale questo documentario è il fatto che il regista non si limita a offrire una nuda registrazione dei fatti ma sa sconfinare e trasporre quello che filma in un poema visivo, con un tocco di poesia che mette da parte i facili proclami, le denunce più ovvie, preferendo di gran lunga soffermarsi sulle emozioni delle vite vissute. Tutto odora di realtà in questo film, ma non si può dire che è un film realistico. Fedele al principio di Truffaut secondo cui “Il cinema è riempire la vista”, da sempre convinto che “il cinema è la trasposizione del reale”, Pietro Marcello documenta le vite in viaggio lungo i binari che attraversano l’Italia puntando sulle immagini, su volti visti per un attimo, su dialoghi frammentati, che si intrecciano ai paesaggi che scorrono al di là del finestrino, suggestivi a volte, degradanti in altri momenti.

Parte da un’immagine, non da una sceneggiatura, non si preoccupa della coerenza nei viaggi – da Bolzano a Villa San Giovanni, stazioni e paesaggi si accavallano senza alcuna ligia geografia – eppure riesce a raccontare le sofferenze più intime dei suoi protagonisti attraverso molteplici sfumature, delineando il ritratto di un’Italia piena di dignità e sacrificio. Il volto di un passeggero diventa la condizione stessa dell’erranza, gli spostamenti del treno non sono che dei moti dell’anima, i monologhi brevi dei viaggiatori non sono che testimonianze di destinazione, destino, vita.

All’interno degli scompartimenti si intrecciano le vite dei passeggeri che parlano dialetti diversi, considerazioni sul senso del lavoro e del viaggio si rincorrono in un magma di immagini notturne: c’è chi non vorrebbe lasciare il posto dove vive ma è costretto a partire, chi raggiunge la destinazione solo per pochi giorni, “il tempo per cui ti assumono” e poi ritorna indietro, chi ironicamente sostiene, quando va al Nord a lavorare, di essere come James Bond perché “va in missione “, chi si diletta a cogliere le differenze tra il dialetto barese e quello foggiano, chi non può portare la moglie con sé perché ” se poi non trovi nulla dall’altra parte, che fai? Torni indietro? E che so tutte ‘ste tarantelle?”, chi sogna una rivoluzione, chi non si ritiene all’altezza ” perché l’unica cosa che noi possiamo organizzare è una partita di calcio”, chi amaramente non può che accettare questo andirivieni continuo perché si è vincolati ai soldi e ” costa più morire che sposarsi”.

Tra i personaggi che popolano questi treni notturni ce n’è uno che ha eletto a sua casa il treno: è Arturo Nicolodi, ultranovantenne bolzanino, protagonista dei conflitti altoatesini dei primi anni Cinquanta, europeista convinto, un ‘ uomo in rivolta’, che ha scelto di vivere sui treni per potersi sentire libero, in un posto ” dove vai e vieni e nessuno ti rompe le scatole”.

È un cinema quello di Pietro Marcello che nasce dai corpi e dai luoghi, che osserva visi smarriti nei corridoi stretti del vagone, che sa cogliere nel lampo di un’inquadratura tutta la bellezza di uno sguardo, come farebbe un poeta quando riesce a catturare il volto di una donna, un volto stimolante, seducente, dalla bellezza abbagliante, che filma con carrelli “naturali” ottenuti con il movimento del treno notti insonni, stazioni vuote illuminate al neon, attese, prospettive di quel che si potrà compiere. E la vita intanto continua, con le sue linee da attraversare. Nel vuoto del corridoio persone pensierose, allegre, con le loro storie in valigia, volti stanchi, assorti, un concentrato di umanità che vuole sentirsi vivo, viaggiatori in transito dove presente, passato e futuro si confondono. Una folgorante opera prima, un’esperienza unica ed emozionante per chi sa lasciarsi guidare dalle immagini e sa amare in modo incondizionato la poesia.
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