IL COLORE DEL MELOGRANO, di SERGEJ PARAJANOV (1969)

di Marco Grosso

“Vedere Il colore del melograno è come aprire una porta e camminare in un’altra dimensione, dove il tempo si è fermato e la bellezza è stata liberata”

Martin Scorsese
Locandina

Sergej Parajanov va senza dubbio considerato e riscoperto come una delle grandi personalità artistiche del XXI secolo, figura per molti versi inclassificabile, caratterizzata da un’aura leggendaria. Fu un artista plurietnico ed eclettico: georgiano di origine armenae vissuto gran parte della sua vita in Ucraina; regista, musicista, pittore e disegnatore. Purtroppo la sua esistenza è stata lacerata da due profonde sofferenze: l’assassinio della moglie musulmana per mano dei suoi stessi parenti che non accettavano il matrimonio con uno straniero di religione cristiano-ortodossa e la lunga, estenuante opera di censura e persecuzione che il regime sovietico mise in atto nei suoi confronti, dal boicottaggio dei suoi film (iniziato nel 1964) alla dura prigionia nei gulag (1975-77) fino al divieto di fare cinema (dal 1977 al 1984). Eppure i 4 capolavori di Parajanov restano un inno alla bellezza, alla gioia creativa, alla vita e al suo mistero inesauribile e glorioso. Diventato celebre nel mondo a partire dal 1964 grazie al suo primo capolavoro (Le ombre degli avi dimenticati) già nei due cortometraggi successivi, ossia Hagop Hovnathanian (1965) e Gli affreschi di Kiev (1966,), Parajanov abbandona il dinamismo ipercinetico della macchina da presa e il suo cinema fatto di piani sequenza, riprese a mano, carrellate, dolly, zoom, per un cinema più votato all’indugio e alla fissità contemplativa, ancora più “pittorico”, fatto di quadri che prendono vita sotto lo sguardo dello spettatore. Ma è nel lungometraggio del 1969, Il colore del melograno (Sajat nova) che questa tendenza raggiunge il suo apice espressivo. In questo capolavoro visivo i “quadri” si dispiegano uno dopo l’altro al di fuori di una sequenzialità logico-narrativa o discorsiva (pochissimi i dialoghi nel corso del film). I soggetti sono inquadrati quasi sempre in modo frontale alla cinepresa fissa che si limita a svelarli e a risvegliarli come da un incantesimo o da un oblio, attivando i loro movimenti intenzionalmente irreali, stilizzati al punto da diventare gesti liturgici e ieratici, puri segni coreografici e metaforici (non molto distanti dal linguaggio dell’antico teatro giapponese). Il film è ispirato alla vita del più grande poeta armeno del 18° sec. Aruthin Sajadin, detto appunto ‘Sajat nova’ (Re del canto) ma nella didascalia introduttiva è specificato che non si intenderaccontare solo di lui e di un poeta in particolare, bensì del Poeta che nel mondo del regista armeno coincide con la figura dell’Ashugh (in lingua armena e georgiana) o Asik (in lingua turca e azera) ovvero del poeta-bardo tradizionale che accompagna la sua canzone o lirica con un liuto a manico. Particolarmente significativa anche la didascalia del primo quadro, quello dell’infanzia del poeta, che recita con le parole stesse di Sayat: “Dai colori e dagli aromi di questo mondo, la mia fanciullezza trasse una lira da poeta, e me la offrì”.

L’opera “dipinge” e “canta” 8 tappe di un cammino iniziatico e di formazione, la vita e la storia di un ashugh (tema e modalitàripresi nell’ultimo film di Parajanov: Asik Kerib. Storia di un ashugh innamorato). Come in tutti i capolavori di Parajanov anche in I colori del melograno la danza e la musica sono protagoniste occupando non soltanto uno spazio scenico-coreografico ma narrativo e ritual-simbolico (Parajanov era anche musicista e da giovane aveva frequentato il conservatorio). I suoi film sono partiture cromo-coreutico-musicali, le colonne sonore sono sostituite dalle performances dei musicanti, dei danzatori, degli ashugh. Così isuoni e le musiche tradizionali armene si fondono conl’affascinante policromia figurale degli allestimenti scenici dando vita ad una complessa sinfonia visiva e ad una singolare alchimia cinematico-musicale. In questo senso il cinema di Parajanov va osservato-ascoltato e interpretato come un’Arte sintetica e sinestetica.

All’inizio del film si vedono tre melograni, antichissimo simbolo dell’Armenia e archetipo ricorrente nei film di Parajanov, da cui il succo sgorga come sangue assorbito lentamente dalla tela bianca sulla quale poggiano; di seguito, sulla stessa superfice appare un coltello unto dallo stesso “sangue del melograno” (rimando al sangue sparso nel genocidio armeno e/o alle sofferenze inflitte dal regime sovietico?).

Melograni simbolo dell’Armenia

Tra le innumerevoli immagini liricamente e pittoricamente stupefacenti citiamo quella che narra l’incipit della vocazione poetica del protagonista e insieme prefigura profeticamente il suo futuro martirio: è l’immagine del poeta bambino sdraiato sul tetto di un convento con le braccia spalancate come in croce, immobile a guardare il cielo, circondato da decine di volumi aperti e sfogliati dal vento. Struggente anche la sequenza di gesti che accompagnano la sequenza finale della morte di Sayat nuovamente disteso sul pavimento attorniato non più dai libri ma da candele su cui scendono alcuni galli che svolazzando si bruciano.

Davvero, come disse Martin Scorsese, vedere i colori del melograno “è come aprire una porta e camminare in un’altra dimensione, dove il tempo si è fermato e la bellezza è stata liberata”. Davvero, come disse J. L. Godard, “nel tempio del cinema vi sono immagini, luci, realtà. Parajanov è stato il maestro di questo tempio.”

Siamo di fronte ad un “cinema di poesia” e non “di prosa”, come avrebbe detto Pasolini, anzi siamo dentro un’unica cine-poesia di 75 minuti, in un cinema modellato sulla logica altra della poesia – sulla sua forma e sul suo ritmo – un cinema che sembra provenire da dimensioni ancestrali e arcane.

La potenza figurativa ed evocativa delle immagini che sfilano in Sajat Nova ha pochi eguali nella storia del cinema ma nonostante questo il film venne boicottato dalle autorità sovietiche, ritirato per “estrema deviazione dal realismo russo” e distribuito, più tardi, in una versione con un nuovo montaggio curato da Sergej I. Jutkevič.

In Il colore del melograno ogni quadro scenico gioca sulla valenza narrativa, simbolista, mistica e psicologica dei colori e delle loro corrispondenze, degli sfondi e degli elementi che ne emergono pittoricamente (proprio come avviene nella “scrittura”delle icone ortodosse) ma ciò che colpisce maggiormente è il contrasto paradossale tra l’apparente staticità di questi tableaux vivants e il dinamismo vitale interno ad ogni singolo quadro iconografico simile a un sofisticato sistema simbolico e alcongegno a vista di un grande orologio (o di un articolato carillon) in cui ogni elemento della composizione ruota e danza con gli altri costringendo lo sguardo dello spettatore ad un movimento esplorativo continuo, a rimbalzare da un punto all’altro, da una forma all’altra, da una movenza all’altro di un oggetto o di un corpo, come si trattasse di ingranaggi viventi (non semplici automi) perfettamente sincronizzati. Parajanov doveva aver ricavato quest’idea paradossale dagli antichi codex sacri armeni edalla contemplazione delle loro miniature “animate” che suggerivano i loro peculiari movimenti all’interno dei fermo–immagine. Con Il colore del melograno avviene in pratica il rovesciamento formale del primato della cinepresa celebrato nel suo precedente capolavoro (Le ombre degli avi dimenticati): la macchina da presa sembra annullare se stessa e le sue manovre, ritrarsi e abdicare al suo protagonismo per fissarsi in un puro occhio contemplativo mentre a muoversi è anzitutto l’occhio dello spettatore ipnoticamente assorbito nel meccanismo interno dei singoli quadri scenici, allestiti minuziosamente secondo una raffinatissima arte della composizione. Solo un regista geniale come Parajanov poteva passare da un tipo di linguaggio cinematografico come quello sperimentato in Le ombre degli avi dimenticati ad uno radicalmente opposto senza perdere l’unità profonda e singolarissima del suo stile, arrivando a definire gli opposti versanti di un linguaggio unico, innovatore, sovversivo rispetto alle scuole e agli schemi dei linguaggi cinematografici di allora e tale da risultare, ancora oggi, pura avanguardia.

Desideriamo concludere questa recensione con un ritratto fotografico del regista armeno immerso nel suo habitat tradizionale e con le parole stesse, ispirate e misteriose, che egli riservò al suo Sayat Nova in una sua dichiarazione: «L’Armenia ha mostrato questo film, ha mandato la gente a vederlo. Non direi che la gente lo capisca, ma va a vederlo come andrebbe a una festa. […]. Nel film ho cercato di ritrarre l’arte nella vita, piuttosto che ritrarre la vita nell’arte. […] È molto primitivo nella sua struttura: c’era l’infanzia, la giovinezza, l’amore, il monastero, le pietre. L’amato era una pietra, la cella era l’amato, l’amata, il suo seno è glorificato in versi, la rosa è glorificata in versi. Poi ci fu il pensiero: la mia gola è secca, sono malato. Il poeta muore. Tutto è così semplice, chiaro, come nel destino di un grande poeta, un ashugh, un menestrello».

Sergej Parajanov

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