Judas and the black Messiah, di Shaka King (2021)

di Bruno Ciccaglione

Con Judas and the Black Messiah Shaka King vince la scommessa di realizzare un film in cui la sensibilità artistica di scrittore, sceneggiatore e regista, si combina in modo efficace con i suoi studi di scienze politiche. Il film, che otterrà 6 nomination agli Oscar tra cui quella come miglior film, sa unire infatti la spettacolarità di una regia da film d’azione a una scrittura sapiente, un lavoro straordinario sulle musiche, un cast che dà una prova eccellente, il tutto senza tradire né annacquare i contenuti che intende veicolare e che riguardano il pensiero e la storia di Fred Hampton, leader del partito delle Black Panthers dell’Illinois alla fine degli anni ’60.

La realizzazione di un film come Judas and the Black Messiah, che ricostruisce le vicende che porteranno all’uccisione del giovane e carismatico leader delle Pantere Nere da parte dell’FBI, stupisce piacevolmente. È alquanto inusuale, infatti, che un film che per certi aspetti è un vero e proprio film di contro-propaganda e che risarcisce l’immagine manipolata che del partito delle Pantere Nere si è costruita nell’immaginario pubblico, sia stato realizzato negli studi di Hollywood. Evidentemente da un lato il lavoro fatto negli anni nelle comunità afroamericane, dai movimenti che poi daranno vita a Black lives matter, spinge una nuova generazione di autori a rileggere la storia dei movimenti neri, dall’altra le campagne degli ultimi anni hanno creato un terreno più favorevole anche nel mondo dello spettacolo mainstream.

Shaka King e Lakeith Stanfield sul set

Il film nasce dalla felice collaborazione tra Ryan Coogler (reduce dai successi di Creed e Black Panther) e Shaka King. Entrambi sceneggiatori, registi e produttori ed entrambi tra gli intellettuali più attivi e politicamente coscienti del variegato mondo afroamericano (il primo californiano e il secondo di New York). Sarà Coogler a conquistare la fiducia della famiglia di Fred Hampton e in particolare del figlio, che accetterà quindi di collaborare alla realizzazione di un film sul carismatico padre, dopo aver respinto molte richieste analoghe in passato. Il regista King sarà poi continuamente in rapporto con i familiari, in un costante sforzo di adattamento cinematografico della vicenda, che inevitabilmente per esigenze narrative a volte si distacca da una ricostruzione completamente fedele alla storia, ma che era indispensabile per fare un film di valore e non una mera trasposizione delle idee politiche e della storia di Fred Hampton.

Come sintetizza il titolo, i due poli del racconto sono due figure contrapposte: da un lato un “Giuda”, che è il perfetto esempio del nero individualista che accetta acriticamente il sistema capitalista, dall’altro un leader con capacità “messianiche” di liberazione e emancipazione degli afroamericani, che invece incarna ideali di solidarietà e di ispirazione socialista. La storia vera di Fred Hampton, numero uno del partito delle Pantere Nere dell’Illinois, nel periodo di scontro sociale durissimo che segue le uccisioni di Martin Luther King e di Malcom X, porterà alla sua uccisione da parte dell’FBI nel 1969, con l’apporto decisivo di un informatore-infiltrato, William O’Neal.

I due personaggi al centro del film, Fred Hampton e William O’ Neal durante un comizio delle Pantere Nere

A interpretare le due figure centrali troviamo da un lato Daniel Kaluuya, che nei panni di Fred Hampton vincerà l’Oscar come miglior attore non protagonista, e dall’altro Lakeith Stanfield, che interpreta l’informatore infiltrato dall’FBI O’Neil. I due offrono entrambi una prova straordinaria: il primo ci restituisce, oltre al grande carisma del politico Hampton, tutta la sua umanità, anche grazie alla scelta registica di farcelo spesso vedere dalla prospettiva della sua compagna Deborah Johnson – interpretata da una straordinaria Dominique Fishback – che sarà poi la madre di suo figlio e che nel film aiuta Hampton a superare le tipiche resistenze maschili al ruolo paritario delle donne nel movimento, che sarà uno dei tratti più innovativi delle Black Panthers.

Daniel Kaluuya (nel ruolo di Fred Hampton) e Dominique Fishback (che interpreta Deborah Johnson)

Il personaggio di William O’Niel/Stanfield, d’altra parte,  è raccontato – oltre che attraverso il ruolo di protagonista che ha nell’intera vicenda, attraverso la ricostruzione di una sua famosa intervista televisiva per il programma televisivo “Eyes on the Prize 2”. Il montaggio alternato di questa intervista realizzata nel 1989, con le immagini in flashback delle vicende di O’Neil e Hampton, ci offre il quadro squallido e tutta la confusione morale di un uomo, O’Neil, su cui il film esprime un giudizio durissimo e che farà anche lui una brutta fine (dovrete aspettare fino alla fine del film per sapere quale).

La famosa intervista a William O’Niel per Eyes on the Prize 2, ricostruita con Lakeith Stanfield

La figura di Fred Hampton è invece il cuore affascinante di questo film, che ne mette in evidenza le grandi doti di leadership, il suo continuo riferirsi/confrontarsi con le parole e le idee delle figure storiche del movimento (Malcom X su tutti), ma soprattutto la sua strategia politica. A partire da una prospettiva socialista e dunque di classe, Hampton realizzò infatti un ambizioso e proficuo progetto di “Alleanza arcobaleno”: mettendo insieme diversi movimenti e minoranze (neri, ispanici, bianchi), accomunati dalla medesima appartenenza di classe, l’alleanza realizzò una serie di interventi di mutualità, che costruivano un vero e proprio welfare per il proletariato di Chicago. Un progetto che purtroppo morirà con Hampton, vedendo trionfare la strategia del capo dell’FBI Hoover (qui interpretato da un grandissimo Martin Sheen) di criminalizzare e annientare ogni movimento che si dimostrasse capace non solo di affermare i diritti degli afroamericani, ma anche di costruire delle alternative concrete e dal basso.

Importantissima, per delineare in modo chiaro le forze in campo, il tipo di conflitti, le strategie e le idee che i personaggi incarnano, è la figura dell’agente dell’FBI Mitchell (un bravissimo Jesse Plemons), che gestisce per conto dei federali la relazione con l’informatore infiltrato O’Niel. Mitchell è il bianco istruito per eccellenza, che esprime un punto di vista apparentemente democratico e dialogante, ma che in realtà non esita a usare il ricatto come strumento essenziale del proprio lavoro. È lui a paragonare le Black Panthers al Ku Klux Klan, dando voce a una teoria degli “opposti estremismi” tanto cara a quanti hanno poca voglia di mettere in discussione un sistema sostanzialmente ingiusto, preferendo rifugiarsi in un formalismo legalitario che si rivela poi, nel film come nella storia, completamente mistificatorio.

Lakeith Stanfield e Jesse Plemons

Mano a mano che scopriamo come le pratiche dell’FBI siano totalmente sprezzanti della vita umana e anzi esplicitamente anticostituzionali, Mitchell non solo non ne viene turbato, ma si adatta, proprio come è costretto a fare il suo interlocutore ricattato O’Niel, proprio come facciamo noi quando ci rifugiamo in verità precostituite, come se esse fossero politicamente neutrali. Di fronte alla ineluttabilità dell’ingiustizia che questi personaggi solo col loro egoismo continuano a rafforzare, la figura di Fred Hampton emerge come quella di un gigante, cui questo film rende finalmente il dovuto omaggio.

Fred Hampton: “Non pensiamo che il fuoco si combatta con il fuoco; per combattere il fuoco è meglio usare l’acqua. Non combatteremo il razzismo con il razzismo, lo combatteremo con la solidarietà. Non combatteremo il capitalismo con il capitalismo nero, ma lo combatteremo con il socialismo.

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